Due startup specializzate in tecnologie digitali accusate di aver rubato testi e musiche di un cantautore country. Timbaland che fonda una nuova etichetta discografica popolata unicamente da artisti generati dall’intelligenza artificiale. Infine una misteriosa rock band che ha spopolato per settimane su Spotify facendo meravigliare il mondo, per poi scoprire che erano solo frutto del machine learning. Il rapporto tra creatività musicale e tecnologie digitali è sempre più controverso. L’intelligenza artificiale, oggi, è molto più di un supporto tecnico: è diventata il vero motore di trasformazione del panorama sonoro contemporaneo.
Band fittizie, avatar che generano più streaming degli artisti reali, suoni prodotti artificialmente e proposti sulle principali piattaforme togliendo spazio, ascolti e possibilità di monetizzazione agli artisti (umani) emergenti. La confusione e le aree di conflitto sono tante. “L’IA – spiega ad Artuu Fabrizio Pucci, consulente di marketing musicale e autore della newsletter ‘Music Promoter’, dedicata agli artisti indipendenti che vogliono promuoversi online – sta rompendo il patto tra artista e ascoltatore: quel legame umano, imperfetto e autentico che ha sempre dato senso alla musica. Ora il pubblico viene trattato come un target, e l’artista come un fornitore da sostituire. Il rischio? Una musica senz’anima, utile all’algoritmo ma incapace di creare memoria”.

Dagli strumenti che assistono nella composizione e produzione, fino agli artisti virtuali e ai fenomeni virali sui palcoscenici digitali come Spotify, la musica generata o co-creata dall’IA è ormai una parte essenziale del mondo dell’industria contemporanea. Molti artisti contemporanei si sono detti favorevoli alla svolta “ibrida”: Grimes, James Blake e tanti altri hanno apertamente dichiarato di servirsi, nella fase della creazione musicale, di algoritmi basati sul machine learning.
Strumenti che permettono di generare melodie, elaborare voci sintetiche e sperimentare nuovi sottogeneri, dando vita a una fusione sempre più stretta tra creatività umana e intelligenza artificiale. Il risultato è uno scenario creativo in cui l’ispirazione dell’artista si intreccia con la potenza analitica delle macchine, aprendo nuove possibilità espressive e produttive. Ma il fronte critico cresce. E non solo tra i puristi. “L’IA – continua Pucci – non crea tendenze. Le replica, le amplifica, le moltiplica su scala industriale. Ma le vere rivoluzioni musicali non nascono così. Il punk, il grunge, il lo-fi sono esplosi come risposta sociale. Anche l’ambient di Brian Eno, pensata per accompagnare l’attesa in un aeroporto, nasce da un’idea culturale, non da un algoritmo. L’industria oggi preferisce la scorciatoia. Tutto ottimizzato, zero rischio, produzioni in serie. Ma quando tutti suonano allo stesso modo, nessuno lascia il segno. L’IA può solo imparare da ciò che è già accaduto. Non può inventare il futuro. Può riempire uno spazio, ma non colmare un vuoto culturale”.

In alcuni casi, la sensazione di spaesamento di fronte ai nuovi colossi della musica AI-based ha lasciato il posto alla rabbia di chi si sente in qualche modo “derubato” della propria originalità artistica. Da questo sentimento sono nate recenti battaglie legali che rischiano di aprire nuovi fronti. Uno dei nodi più controversi riguarda l’uso crescente da parte di chi produce musica di piattaforme come Suno e Udio, capaci di generare intere tracce musicali a partire da un semplice prompt testuale.
Le aziende che le hanno sviluppate sostengono che l’addestramento dei loro modelli su brani protetti da copyright rientri in un corretto utilizzo. Secondo molti osservatori, però, in realtà questa pratica rappresenta una violazione del diritto d’autore a tutti gli effetti. In un’indagine pubblicata da “Music Business Worldwide”, Ed Newton-Rex, fondatore dell’organizzazione etica per l’intelligenza artificiale “Fairly Trained”, ha individuato delle somiglianze tra la musica generata da Udio e le opere di artisti come John Lennon, Natalie Imbruglia e Coldplay, tra gli altri.
Il report segue quello già realizzato su Suno, nel quale si legge come esistano indizi che la startup “come molte altre aziende di intelligenza artificiale generativa possa addestrare i suoi modelli su opere protette da copyright senza autorizzazione”. Inoltre, le canzoni prodotte dall’intelligenza artificiale competono direttamente con quelle degli artisti umani per gli ascolti sulle piattaforme digitali, erodendo la loro quota di royalties e visibilità.
C’è poi una questione altrettanto insidiosa: quella della disinformazione e della responsabilità. Creare profili, identità e brani totalmente generati dall’IA rischia di confondere gli ascoltatori e danneggiare la credibilità di chi nella musica mette davvero voce, esperienza e storia personale. Il caso più eclatante è quello del cantautore country indipendente Tony Justice, che ha intentato due cause legali contro Suno e Udio, accusandole di aver utilizzato la sua musica senza autorizzazione per addestrare l’IA. “Il vero nodo – sottolinea Pucci – è che le piattaforme promuovono musica artificiale senza dirlo, trattenendo royalties e riempiendo playlist di brani anonimi. È una truffa legalizzata. Ma qualcosa si muove. YouTube e Spotify hanno cominciato a imporre limiti. Dopo anni di passività, la reazione è partita”.

Proprio la principale piattaforma di streaming musicale, fondata nel 2006 da Daniel Ek e Martin Lorentzon, è finita al centro delle polemiche a causa di una strana band: i Velvet Sundown. Un nome con echi californiani e un sound con ispirazioni psichedeliche, due album pubblicati in poche settimane, e oltre 1,5 milioni di ascoltatori mensili su Spotify che, ancora oggi, propone la band con un profilo verificato. Peccato che i Velvet Sundown non esistano: niente California, nessuna chitarra graffiante, ancora meno concerti e interviste. La band è frutto dell’intelligenza artificiale, come poi i misteriosi creatori dietro al progetto sono stati costretti ad ammettere, inserendo la specifica nella bio su Spotify. La vicenda è venuta alla luce dopo che alcuni utenti e giornalisti hanno notato dettagli anomali, dalle immagini alla biografia.
Indagini successive hanno rivelato che musica, testi, artwork, voce, persino la narrazione attorno alla band, era frutto di algoritmi, probabilmente realizzati con strumenti di IA generativa come i già citati Suno o Udio. Le polemiche sono presto servite: la band, che per settimane ha scalato le classifiche degli streaming, è riuscita a imporsi sulle stesse piattaforme in cui gli artisti umani, soprattutto indie ed emergenti, faticano a farsi notare. Spotify, come da sua politica, non ha mai precisato che si trattava di un progetto interamente generato da IA, mentre Deezer ha escluso i brani della band dai propri algoritmi editoriali, definendoli “100% artificiali”. Molti artisti e associazioni di categoria chiedono maggiore trasparenza e l’introduzione dell’obbligo di etichettatura per le produzioni create con IA. “Il caso dei Velvet Sundown – continua Pucci – ha provocato una reazione feroce: la gente si è sentita presa in giro e ha cominciato a chiedere trasparenza. È un segnale chiaro: il pubblico vuole sapere con chi ha a che fare”.
L’ascesa sul mercato di band e brani generati dall’intelligenza artificiale dimostra come molte aziende tecnologiche abbiano addestrato i propri modelli sfruttando opere creative esistenti, spesso senza ottenere il consenso né riconoscere alcun compenso agli autori o ai titolari dei diritti, arrivando così a competere direttamente con la musica prodotta da esseri umani.
È la nuova era dell’industria musicale, sempre più dominata da artisti che, in realtà, non esistono. È il caso della colonna sonora di “KPop Demon Hunters”, il film d’animazione targato Netflix che ha conquistato il primo posto tra i titoli in lingua inglese sulla piattaforma, totalizzando oltre 22,7 milioni di visualizzazioni nella seconda settimana. I protagonisti sono due gruppi K-pop fittizi ma molto accattivanti, come i Saja Boys e le HUNTR/X, che hanno infranto record reali.
La canzone “Your Idol” ha superato i BTS nella classifica statunitense di Spotify, mentre “Golden” ha battuto il primato delle BLACKPINK per i gruppi femminili, raggiungendo il secondo posto. Qualche settimana prima, quasi nessuno si era stupito quando il leggendario e miliardario produttore Timbaland, già consulente di Suno, ha lanciato Stage Zero, una nuova etichetta interamente dedicata ad artisti generati dall’intelligenza artificiale. La prima “voce” della scuderia è TaTa, artista virtuale presentata non come un avatar o un personaggio, ma come “un’artista viva, apprendista e autonoma”, destinata a inaugurare un nuovo genere musicale: l’A-Pop.
Cosa resterà di questa marea è difficile da prevedere. “Finché l’IA non avrà un vissuto – conclude Pucci – , non potrà produrre canzoni che rappresentano un’epoca. Ma se una generazione crescerà solo con contenuti generati, finirà per considerarli cultura. Nel mio lavoro con artisti indipendenti vedo ogni giorno quanto sia difficile competere con playlist piene di musica generica, costruita per riempire spazi più che per dire qualcosa. Ma vedo anche che chi costruisce un rapporto autentico con il proprio pubblico, con storie vere, concerti reali, parole proprie, riesce ancora a lasciare il segno. L’autenticità è diventata un vantaggio competitivo. Ed è lì che passa il futuro della musica”.


