Netflix mette in scena il lato oscuro del talento: The Lesson e il plagio come forma d’arte

In The Lesson, film scritto da Alex MacKeith e diretto da Alice Troughton, ora disponibile su Netflix, lo sguardo non si posa mai dove dovrebbe. Anziché abbracciare con fragore la scena letteraria o offrire un’apologia della creatività, ci troviamo invischiati in una villa inglese dal sapore squisitamente decadente, dove ogni parola è una mossa su una scacchiera morale, e ogni silenzio è un tradimento.

J.M. Sinclair, interpretato da un glaciale Richard E. Grant, è un titano caduto della letteratura: misurato, crudele, sfuggente come l’ombra di un autore che non ha più nulla da dire, ma pretende ancora di comandare il discorso. Di fianco a lui, Julie Delpy incarna Hélène, la moglie – artista, curatrice, musa abortita – che abita lo spazio come un’eco di potenza passata. E infine c’è Liam, il giovane scrittore incaricato di fare da tutore al figlio del genio in rovina: un outsider pronto a consumare la vendetta più sottile – quella dell’intelligenza.

Non siamo dalle parti di un semplice thriller psicologico. The Lesson è una riflessione tagliente sulla proprietà dell’arte, sulla natura del genio, sulla perversione insita nei rapporti di potere culturale. Il testo è calibrato, colto, letterario fino all’autocompiacimento – eppure non si perde mai in cerebralismi sterili. La regia di Troughton, al suo debutto cinematografico, è invisibile ma precisa. Ogni inquadratura gioca con l’asimmetria e il decentramento, come a dirci che la verità non è mai nel campo principale, ma ai margini, nelle cornici.

Il contesto visivo in cui si svolge la vicenda è fondamentale: The Lesson sembra ambientato non in un luogo, ma in un concetto. La villa dei Sinclair è un museo delle intenzioni frustrate, una trappola borghese travestita da tempio della cultura. Nulla è lasciato al caso: quadri dalle pennellate spesse e scure punteggiano le stanze, sculture senza nome sfiorano l’orlo dell’inquietudine. Nessun artista contemporaneo viene mai nominato esplicitamente, eppure l’estetica dell’allestimento rimanda a un gusto collezionistico maturo, quasi postmoderno. Come se Gerhard Richter si fosse lasciato cadere in una tela di Francis Bacon, e la casa stessa fosse l’espressione della colpa culturale dell’Europa.

Eppure, è nella scrittura che il film affonda i colpi più acuminati. La celebre frase “I buoni scrittori prendono in prestito, i grandi scrittori rubano”, chiara citazione a Picasso, risuona come un mantra tossico. Nella sua banalità da citazione da t-shirt, nasconde un interrogativo micidiale: chi può davvero permettersi di “rubare” nella cultura? E chi invece viene accusato di plagio, di appropriazione indebita, di mancanza di voce? In questo senso, The Lesson si fa specchio delle ansie contemporanee sulla legittimità, sull’autorialità, sulla differenza tra ispirazione e furto.

È una riflessione che riecheggia le tensioni del mondo dell’arte attuale, specialmente nell’epoca dell’AI. Le dinamiche tra Sinclair e Liam sembrano uscite da un catalogo di potere accademico post-#MeToo: mentorship velenose, ricatti estetici, la promessa implicita che chi sta “in alto” ha diritto alla narrazione, mentre chi sta “in basso” può solo mendicarla.

Ma attenzione: The Lesson non è un’opera vendicativa. È glaciale, elegante, velenosa come un bicchiere di porto offerto in una biblioteca. E in questo, il film trova il suo stile. Nessuna esplosione emotiva, nessun melodramma: solo la lenta corrosione del dubbio. Un dubbio che cresce nei corridoi, nei silenzi carichi di significato, negli sguardi che passano sopra le parole come un correttore invisibile.

In definitiva, The Lesson è un saggio visivo e morale mascherato da thriller. Un’opera che non ha paura di risultare sgradevole, anzi, ne fa il suo orgoglio. E come ogni lezione ben riuscita, non offre risposte, ma domande che ci inseguono ben oltre la visione. Chi ha davvero scritto la nostra storia? E chi glielo ha permesso?

3 Commenti

  1. Film elegante e intelligente, un po’ lenta la prima parte forse volutamente .. unico commento che mi sento di fare è la memoria fotografica di Liam tanto celebrata.. irrealistica e assurdo il poter pensare che esista un uomo computer vivente tipo copia incolla
    per il resto un film d’autore, senza dubbio fa pensare

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Letizia Ragaglia al MASI: il museo come luogo necessario. Intervista alla nuova direttrice

In questa intervista ci racconta come intende declinare le sue esperienze internazionali nel contesto ticinese, perché non crede nei formati calati dall’alto e cosa significa, oggi, fare di un museo un luogo necessario.

Artuu Newsletter

Scelti per te

Seguici su Instagram ogni giorno