Perché gli artisti guadagnano poco?

Osservando il mercato dell’arte ci si imbatte in opere il cui valore può raggiungere cifre astronomiche. Contemporaneamente molti artisti di talento lottano per pagare l’affitto. Questo paradosso persiste nonostante secoli di evoluzione del mercato dell’arte, miliardi in sussidi governativi e donazioni private. Ma perché?
Hans Abbing, economista e artista, nel suo libro Why Are Artists Poor? The Exceptional Economy of the Arts, offre una spiegazione strutturata di questa contraddizione apparentemente irrisolvibile. L’economia dell’arte, sostiene Abbing, è davvero “eccezionale” – ma non nel senso che comunemente si attribuisce a questa parola.

Avevamo già toccato questo argomento (in Arte, branding e brand performance pt. 1) citando gli economisti Tyler Cowen e Alexander Tabarrok (An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art, or High and Low Culture). Dicemmo che le arti visive richiedono enormemente meno capitale rispetto ad altre arti, quali il cinema o il teatro, da ciò si evince che chiunque può facilmente entrare. In quell’articolo questa caratteristica era vista come una opportunità, ovvero quello di favorire le avanguardie e la sperimentazione. In questo articolo vedremo, invece, come è esattamente questo il motivo per il quale possiamo dire che la maggior parte degli artisti non ha un reddito che ritiene soddisfacente.

Un’offerta che supera la domanda

Nonostante i bassi guadagni medi, non c’è carenza di aspiranti artisti. Questa sovrabbondanza mantiene i redditi bassi perché molti sono disposti a lavorare per compensi minimi o nulli. È una semplice equazione economica: quando l’offerta supera significativamente la domanda, il valore economico crolla.
Ma perché così tante persone scelgono di intraprendere una carriera che statisticamente promette difficoltà economiche? La risposta a questa domanda è esattamente la risposta al motivo per cui gli artisti guadagnano mediamente poco: da una parte non sono i soldi il primo movente, dall’altra vi è l’aspirazione a raggiungere la vetta per avere fama e guadagni straordinari.
Tuttavia, il mercato dell’arte funziona secondo un principio “winner-takes-all“, dove un numero esiguo di artisti di grande successo guadagna redditi estremamente elevati, mentre la stragrande maggioranza guadagna pochissimo. Questa struttura, simile a quella dello sport professionistico o dell’industria cinematografica, attira molti emergenti che sognano di raggiungere l’apice, comprimendo ulteriormente i redditi medi.
Pensate a Damien Hirst, Jeff Koons o Banksy – artisti le cui opere vengono vendute per milioni, o che vendono migliaia di multipli per poche migliaia di dollari, il che fa sempre milioni. La loro visibilità crea un’illusione ottica: se ce l’hanno fatta loro, perché non io? Questa percezione distorta alimenta un flusso costante di nuovi talenti nel settore, molti dei quali destinati a lottare economicamente.
Gli artisti sono spesso più interessati a ricompense non monetarie come la soddisfazione personale, il riconoscimento e la fama rispetto al compenso economico. La sacralità percepita dell’arte contribuisce a questa mentalità. Molti artisti rinunciano al denaro in cambio di queste ricompense intangibili ma profondamente appaganti.
“L’arte per l’arte” non è solo un’espressione retorica – per molti artisti è un credo vitale. La realizzazione creativa, l’espressione autentica e l’impatto culturale spesso superano le considerazioni finanziarie nelle loro scale di valori.
Spesso sono per primi gli artisti stessi a criticare i colleghi che si spingono verso pratiche commerciali più azzardate. E’ rarissimo che un artista non abbia qualche critica riservata ad artisti viventi di successo in tal senso, la tensione tra sacralità e sfruttamento economico è a tutti gli effetti un peccato originale.
Paradossalmente, il sostegno governativo e istituzionale volto ad aumentare i bassi redditi degli artisti sembra inefficace e potrebbe persino esacerbare la povertà attirando più persone nel settore. I sussidi possono segnalare che il governo si prende cura degli artisti, facendo sembrare la professione più sicura da intraprendere.
In realtà, l’aumento della spesa per l’arte (da parte di consumatori, donatori o governi) tende ad aumentare il numero di artisti piuttosto che il loro reddito medio.

Sopravvalutazione delle proprie capacità

Spesso gli artisti sono inclini a sopravvalutare le proprie capacità e possibilità di successo, sottovalutando i rischi e ignorando le informazioni disponibili sulle scarse probabilità di ottenere un reddito elevato. Questa eccessiva fiducia contribuisce al sovraffollamento del mondo dell’arte.
Ma attenzione, non è solo ottimismo ingenuo: è una forma di autoconservazione psicologica. Affrontare la realtà statistica della carriera artistica potrebbe essere così scoraggiante da spegnere la scintilla creativa necessaria per il successo.
La società spesso produce e riproduce un’immagine eccessivamente ottimistica delle arti, portando potenziali artisti a sopravvalutare le potenziali ricompense e sottovalutare la probabilità di un basso reddito. Miti persistenti attirano giovani di talento nel mondo dell’arte.
I media celebrano i successi artistici ma raramente documentano le lotte quotidiane. I film romantizzano la vita bohémien senza mostrarne le vere difficoltà. Le scuole d’arte, comprensibilmente, evidenziano i loro alunni di successo piuttosto che la maggioranza che lotta.

La negazione dell’economia nell’arte

Abbiamo visto come il mondo dell’arte spesso rifiuta i valori commerciali e nega l’importanza dell’economia, questo è un freno per chi è all’inizio e viene facilmente sfruttato in modo eccezionale da chi invece ce l’ha fatta. L’essersi accreditati come di successo con in modo anti-commerciale da il diritto poi di fare qualunque cosa; i più importanti artisti viventi sfornano decine di migliaia di opere multiple, sfruttando commercialmente il loro status di artista autentico.
“È commerciale essere non commerciali” (“It is commercial to be non-commercial“), osserva acutamente Abbing. Con questa affermazione, l’autore mette in luce uno dei paradossi più profondi del mercato dell’arte contemporaneo: l’apparente rifiuto dell’economia di mercato diventa esso stesso una strategia di mercato (poi, aggiungo io).
Questo meccanismo era già stato intuito dal sociologo Pierre Bourdieu, che lo descriveva come un'”economia dei beni simbolici” in cui il rifiuto ostentato dei valori economici costituisce un investimento in capitale simbolico che, a lungo termine, si converte in capitale economico reale. Lo vediamo nella pratica quando un artista che rifiuta pubblicamente commissioni commerciali aumenta il proprio status nel mondo dell’arte, ottenendo paradossalmente prezzi più elevati per le sue opere “pure”.
La contraddizione permea ogni livello dell’ecosistema artistico: gallerie no-profit funzionano come trampolini di lancio verso il mercato commerciale; biennali e festival d’arte “indipendenti” diventano incubatori di tendenze che guidano il mercato; curatori e critici parlano di “importanza culturale” mentre influenzano direttamente le valutazioni economiche. Come documentato da Olav Velthuis in Talking Prices (2005), persino le gallerie più commerciali impiegano una “retorica del prezzo” che maschera le transazioni economiche con un linguaggio di valori artistici e culturali.
Per sopravvivere come artisti, molti integrano i loro bassi redditi artistici con secondi lavori, patrimoni familiari o prestazioni sociali. Questa “sovvenzione interna” consente loro di continuare a perseguire l’arte nonostante i bassi guadagni che ne derivano.
Questa realtà è così comune che ha dato origine al famoso stereotipo del “cameriere-attore” o del “magazziniere-pittore”. Non è un adattamento temporaneo in attesa del “grande momento”, ma una caratteristica strutturale dell’economia artistica.

Conclusione: una povertà strutturale

I bassi guadagni degli artisti non è un bug del sistema, ma una sua caratteristica intrinseca. I bassi redditi sembrano essere inerenti alle arti a causa della disponibilità degli artisti a lavorare per salari orari bassi, guidati dai fattori sopra menzionati.
Questi fattori interagiscono e si rafforzano a vicenda, creando un’economia davvero “eccezionale” dell’arte – non nel senso di straordinaria o meravigliosa, ma nel senso di rappresentare un’eccezione alle regole economiche convenzionali.
Forse la domanda più provocatoria non è “Perché gli artisti guadagnano poco?”, ma “Perché, sapendo tutto questo, così tanti continuano a scegliere l’arte come professione?”. La risposta potrebbe rivelare qualcosa di profondamente umano: la nostra necessità di espressione, significato e connessione spesso trascende le considerazioni materiali. In un mondo sempre più guidato dalle metriche economiche, c’è qualcosa di sovversivo e persino eroico in questa scelta.
Ma romanticizzare la povertà degli artisti significa perpetuare un sistema che sfrutta la loro passione. Riconoscere le realtà economiche dell’arte non sminuisce il suo valore culturale – potrebbe essere il primo passo verso un ecosistema più sostenibile per coloro che dedicano la loro vita alla creazione della bellezza.

Bibliografia

  • Abbing, Hans. Why Are Artists Poor? The Exceptional Economy of the Arts. Amsterdam University Press, 2002.
  • Cowen, Tyler, e Alexander Tabarrok. “An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art, or High and Low Culture.” In Southern Economic Journal, vol. 71, no. 2, 2004, pp. 232–253.
  • Bourdieu, Pierre. Le regole dell’arte: Genesi e struttura del campo letterario. Milano: Il Saggiatore, 1996.
  • Velthuis, Olav. Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art. Princeton University Press, 2005.

Articolo on line:

Deodato.Gallery. “Arte, Branding e Brand Performance – Pt.1.” Artuu.

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