Poemi della terra nera: l’Africa visionaria di Mutu tra i marmi di Bernini

C’è ombra lungo il viale alberato che porta davanti l’ingresso dell’edificio secolare. Il Casino Nobile, oggi Galleria Borghese, si erge silenzioso al centro del piazzale. Da lontano si scorgono le sagome scure di due figure semiumane, in contrasto con le sfumature chiare della facciata. I corpi dalle sembianze femminili sono inginocchiati come antiche divinità egizie, guardiane del tempio pronte a difenderlo a qualunque costo. Mille serpenti ne avvolgono i lineamenti, radici sottili che fuoriescono dal terreno. 

Non vedono, non sentono, non parlano, eppure la loro silenziosa presenza si insinua nel paesaggio circostante senza troppe pretese. Sono The Seated IV e The Seated I, i primi versi muti scritti dall’artista keniota e americana Wangechi Mutu in Poemi della terra nera. Curata da Cloé Perrone, la mostra alla Galleria Borghese a Roma prosegue l’interesse del museo per la poesia, stabilendo un dialogo continuo con la collezione permanente.

Galleria Borghese Wangechi Mutu Poemi della terra nera 1 Installation view with Musa © Galleria Borghese foto Agostino Osio

Entrando nel portico gli sguardi sono rivolti verso l’alto: Ndege I – VII – “uccello” in swahili – sono creature composite sospese nel tempo e nello spazio, proprio come i reperti sottostanti, frammenti del sottosuolo che rievocano i numerosi scavi archeologici condotti nei secoli. Con le ali di tela spiegate e il becco serrato, sembrano pronte per scendere in picchiata o risalire verso il cielo, ma una gabbia invisibile le tiene in trappola, condannandole al destino immobile delle pietre.

Galleria Borghese Wangechi Mutu Poemi della terra nera 1 Installation view with The Seated I and IV © Galleria Borghese foto Agostino Osio

All’interno, nel maestoso salone di Mariano Rossi, l’occhio viene catturato dal pavimento, dove il poema Grains of Words è adagiato sui mosaici romani che illustrano le vicende estreme dei gladiatori. Come in un film muto, le parole sembrano descrivere la scena sottostante: le lettere formate dalle polveri di caffè e tè compongono i versi della canzone War di Bob Marley, denunciando le condizioni di schiavitù e ingiustizia subite dai territori africani che persistono ancora oggi. 

Poemi della terra nera rende visibile quella linea retta che ha origine nell’antichità e prosegue nel nostro presente, un filo che porta con sé il peso di secoli di abusi e prevaricazioni il cui tratto rischia di continuare anche nel futuro. È un tema antico quanto i racconti mitologici delle divinità capricciose e violente, specchio della natura umana. Il Ratto di Proserpina di Bernini ne è l’emblema: opera centrale della Galleria e immagine del desiderio di possesso, ora appare circondata da nuovi elementi che ne accompagnano la visione.

Prayers è una collana di perle giganti, simile a un rosario; i grani scuri sospesi racchiudono la scena del rapimento con quattro pareti ondulate, una sorta di cella che allude al triste destino della giovane. La terra grezza e povera emerge qui più che mai, prefigurando il sottosuolo del regno dei morti, luogo freddo e buio in cui il dio Plutone trascina Proserpina per farne la sua regina. 

Galleria Borghese Wangechi Mutu Poemi della terra nera 1 Installation view with Older Sisters © Galleria Borghese foto Agostino Osio

Sui lati corti i due preziosi tavoli di Luigi Valadier fungono da base per Older Sisters e Underground Hornship: mentre le corna rievocano ambigue creature infernali e antiche pratiche devozionali, le due teste sorelle esprimono solidarietà per la compagna rapita. I ritratti semi dormienti, distesi uno di fronte all’altro, mettono in mostra le capigliature elaborate, pratica identitaria dell’Africa orientale: mani che intrecciano capelli, dita che scorrono sulle perline, mani che stringono, gesti rituali e ripetitivi comuni alle culture di tutto il mondo.

Quelle stesse mani legano e incrociano le foglie di palma per farne dei cesti, elementi essenziali della vita quotidiana di molti popoli: li incontriamo nei Giardini Segreti, ma fatti di bronzo, nascosti tra piante e cespugli; recipienti per il trasporto, la protezione e il nutrimento la cui funzione è rimodulata per accogliere creature come Musa – Mosè in arabo e in swahili – un nome carico di significati che evoca storie di salvezza e comunità, di vita e di morte. A metà tra un embrione umano e uno animale, è un essere alieno che galleggia in uno specchio d’acqua; la superficie è leggermente increspata dal movimento ondulatorio che scaturisce dal feto, segno che il suo respiro vitale è ancora presente, seppur indifeso e minacciato dagli agenti esterni.

Galleria Borghese Wangechi Mutu Poemi della terra nera 1 Installation view with Underground Hornship © Galleria Borghese foto Agostino Osio

Immagini, simboli, rappresentazioni sono elementi che ritornano, spesso in forme e significati diversi, attraversando gli usi e le memorie di ogni civiltà dall’antichità fino ad oggi. La terra nera è il binario spazio-temporale attraverso cui viaggiano paradigmi sociali e culturali, a volte falsi o ingiustificati. Poemi della terra nera è una raccolta di componimenti materiali e immateriali, un testamento socio-culturale che guarda al futuro e immagina un mondo nuovo, dove la memoria e la sapienza del passato si intrecciano con le teorie cosmologiche e le visioni incerte del futuro.

Quello di Wangechi Mutu è quindi un invito a cambiare pelle, come i serpenti che, strisciando sul suolo, si liberano dal peso del superfluo, trasformando e rinnovando sé stessi per un’esistenza migliore.

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