Ci sono artisti che costruiscono la verità, e altri che la smascherano. Wolfgang Beltracchi appartiene alla seconda categoria, anche se, a ben guardare, il suo lavoro compie entrambe le operazioni. Con la mostra L’invenzione del vero, a cura di Francesco Longo e ospitata a Spazio Musa (Torino, dal 31 ottobre al 19 novembre 2025), il più grande falsario del dopoguerra torna sotto i riflettori non come truffatore, ma come artista lucido, provocatorio e libero, capace di trasformare la condanna in un gesto di rinascita.
La sua storia è ormai leggenda: nato nel 1951 in Germania, Beltracchi ha ingannato per decenni esperti, galleristi e collezionisti internazionali, realizzando centinaia di dipinti perfettamente coerenti con lo stile di Max Ernst, Fernand Léger, Campendonk, Picasso e altri maestri del Novecento. Ma la sua non era una semplice frode. Come amava dire lui stesso: «Non ho mai copiato un’opera. Ho dipinto quadri che non esistevano, ma che avrebbero potuto esistere». Una frase che suona come una dichiarazione estetica: non il falso come inganno, ma come atto creativo alternativo, come possibile verità parallela.
Oggi, dopo la condanna del 2011 e la successiva riabilitazione, Beltracchi espone i risultati di una ricerca che non nega il passato, ma lo rielabora. Le opere presentate a Torino appartengono alla sua produzione più recente, e raccontano un artista che ha scelto di affrontare il tema dell’autenticità non più per via clandestina, ma da dentro il sistema che un tempo aveva scardinato. È un ribaltamento ironico e intelligente: chi aveva messo in crisi il valore dell’“originale” torna ora a riflettere su come il vero e il falso convivano in ogni opera d’arte.
Il cuore della mostra è la serie dedicata al Salvator Mundi, in cui il volto di Cristo diventa un palinsesto di stili, un campo di forze visive e simboliche. Beltracchi reinterpreta l’iconico soggetto leonardesco attraverso le lenti di Van Gogh, Dalí, Warhol, Picasso e altri giganti della storia dell’arte, in un continuo slittamento di linguaggi e significati. Il risultato è sorprendente: un Cristo che non salva più il mondo, ma lo specchia — o forse lo giudica — con la stessa ambiguità del mercato che lo celebra. Ogni “falso” Salvator Mundi diventa così una metafora della redenzione dell’arte stessa, intrappolata tra spiritualità e spettacolo, sacro e pop, unicità e riproducibilità.
La forza di Beltracchi sta proprio nel trattare la copia come dispositivo concettuale. Nei suoi lavori, la verità non è data, ma costruita: il falso smette di essere un errore e diventa un linguaggio, un modo per interrogare il tempo e la percezione. È in questa ambiguità fertile che la pittura dell’artista trova il suo spazio più autentico: quello in cui il genio e l’inganno si sovrappongono, dissolvendo ogni confine.
L’esposizione include anche un’ampia sezione dedicata alla produzione digitale e NFT, segno che Beltracchi continua a spingersi oltre, esplorando la nuova frontiera della replica infinita. Se negli anni Duemila il suo falso viveva ancora di tela, pigmento e vernice, oggi si trasforma in bit, algoritmi e immaterialità. È come se l’artista, anticipando il nostro tempo liquido, avesse intuito che l’arte contemporanea non teme più la copia, ma la accoglie come parte integrante della propria natura.


