Negli ultimi anni si è assistito ad una diffusa ripresa dei materiali poveri e di recupero nell’arte contemporanea. Dopo un periodo dominato dalle estetiche digitali e immersive, molti artisti sembrano oggi tornare a privilegiare la matericità, la manualità e il contatto diretto con la sostanza delle cose. Tra le più recenti conferme di questa tendenza spiccano la nomina di Chiara Camoni per il Padiglione Italia alla Biennale 2025, la recente vittoria di Maria Giovanna Zanella al Premio Cairo con un’opera realizzata in pane o, tra le mostre, quella romana di Chris Soal, che trasforma materiali di scarto in installazioni monumentali.
Ma questa tendenza rappresenta davvero un ritorno consapevole, capace di rinnovare la ricerca formale dell’Arte Povera, oppure si tratta di una semplice “riciclatura” di un linguaggio già metabolizzato?
Da un lato, la ripresa di materiali umili può apparire più come un ciclo di moda che come un reale ritorno critico ai fondamenti dell’Arte Povera: un’estetica del “naturale e dell’imperfetto” funzionale alle dinamiche del mercato e delle istituzioni. Dall’altro, non è semplice revival, ma una rinegoziazione contemporanea dei concetti di tempo e materia, in dialogo con riflessioni moderne (ecologiche, femministe) che aggiornano in chiave attuale questa lettura.

Materiale povero come antidoto al digitale
Non è forse un caso che le istituzioni tendano a riscoprire “il povero” nei momenti di saturazione tecnologica: dopo anni di NFT, metaverso e installazioni digitali, il ritorno alla manualità sembra una reazione più che un’evoluzione. Per questo motivo c’è probabilmente un interesse nel voler mostrare la materia così com’è, reale, recuperata, concreta, tangibile e valorizzarla come forma di opposizione a questo mondo digitalizzato.
Il MAXXI di Roma ospita ad esempio Chris Soal, uno degli artisti sudafricani più influenti della scena contemporanea, presentando una raccolta inedita di opere site-specific che intrecciano scultura, biologia ed ecologia. L’artista trasforma la materia quotidiana, stuzzicadenti, tappi di bottiglia, cemento, carta vetrata, in forme nuove: proliferazioni cellulari, stratificazioni geologiche, architetture del vivente. Queste superfici e questa “imperfezione” del gesto manuale della materia, come sarebbero possibili attraverso uno schermo? In questo caso l’opera di Soal invita a riflettere sui cicli di trasformazione e sull’interconnessione tra sistemi naturali, culturali e percettivi e ci mostra come la nuova “povertà” non è tanto economica quanto più percettiva: un modo per reintrodurre il peso, la densità e la fragilità della materia in un mondo che tende a diventare puro flusso di dati.
L’uso di materiali quali argilla, cera, legno, tessuti grezzi diventa anche una forma di “slow making”: un tempo lungo e riflessivo che contrasta la produzione ininterrotta dei movimenti digitali. Pensiamo anche a Chiara Camoni: l’artista lavora la ceramica e la terracotta come gesto meditativo e collettivo che può essere benissimo messo in opposizione alla velocità dell’immagine digitale. La scelta di utilizzare inoltre materiali di recupero, scarti ed oggetti ritrovati è poi anche un modo per ridare loro vita e dignità.

Ferro terracotta nera fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm
Courtesy lartista Nicoletta Fiorucci Collection
Foto Camilla Maria Santini
Rinegoziazione contemporanea del concetto di materia
Se da parte delle istituzioni l’attenzione verso queste pratiche può essere vista come una scelta “strategica” in risposta al bisogno di autenticità e di sostenibilità percepito dal pubblico, dal punto di vista degli artisti rappresenta spesso una rigenerazione etica e simbolica della materia, in dialogo con riflessioni contemporanee legate all’ecologia, alla corporeità e alla cura. La materia non è più solo un mezzo espressivo, ma un soggetto attivo, capace di raccontare il tempo, la trasformazione, la relazione con l’altro.
In questa prospettiva, è emblematica l’opera “Buoni” della vincitrice del Premio Cairo 2025, Maria Giovanna Zanella. L’artista modella il pane per creare forme che ricordano corpi, organi, frammenti di vita. Il pane è un materiale umile che richiama il nutrimento, la condivisione e il tempo. Nell’opera di Zanella la povertà del materiale coincide con una ricchezza di senso, non una riduzione, ma una rinascita, poiché, modellando la materia, l’artista le dona nuova forma e nuova funzione.
Come per lei, anche in molte artiste la manualità “povera” assume anche una valenza politica: quella di riabilitare il corpo e la materia come strumenti conoscitivi. A proposito di risvolti politici, la grande installazione di Máret Ánne Sara, “Goavve-Geabbil”, esposta alla Tate Modern di Londra, rappresenta in questo discorso un ulteriore livello di riflessione. L’artista combina pelli e ossa derivati dalle renne, materiali industriali, suoni e profumi, per evidenziare le problematiche ecologiche che influenzano la vita del popolo dei Sami, comunità al nord della Norvegia. La sua opera non mira alla bellezza, ma alla verità; è una sorta di monumento per onorare le renne e ricordare le vite perse a causa dei cambiamenti climatici. Il materiale, carico di violenza e di storia, diventa qui simbolo di testimonianza e denuncia.
Fare, creare, diventano dunque veicoli di memoria collettiva, gesti di resistenza e allenamento al pensiero, strumenti di relazione. Recuperare la lentezza e la cura nel trattare la materia rappresentano una nuova visione della “povertà”, una possibile lettura di un linguaggio recuperato. abitiamo.


