Un dipinto con uno specchio appare sull’invito della seconda mostra da Ordet visitabile fino al 14 giugno. La cerco in galleria ma mi dicono che non esiste più, e che sia stata distrutta dall’artista Luigi D’Eugenio. La prima immagine che si vede entrando nello spazio è invece il ritratto in bianco e nero di una donna giovane con il volto incorniciato in un bonnet bianco di gusto vittoriano.
Una cuffia di origine medievale legata sotto il mento, che assume le evoluzioni stilistiche e estetiche nel corso delle epoche, soprattutto nell’Ottocento. Sembra un’immagine d’altri tempi, tuttavia scopro che si tratta del ritratto della fidanzata dell’artista con cui parla spesso, ma che non incontra da molto tempo, nonostante non abiti troppo lontano.

Un dipinto senza titolo come tutte le nove opere in mostra, selezionate su oltre 200 recuperate dal curatore Roberto Cuoghi, che delineano il layout dello spazio che avevamo lasciato l’ultima volta con una nave incastrate di Cosima von Bonin in un soffitto troppo basso. Tuttavia, in quello spazio che ora appare svuotato dall’ingombrante veliero, e che riusciamo a percorrere e inquadrare visivamente nella sua totalità con le sue asperità, i dipinti di Luigi D’Eugenio implodono.
Opere spesso di grandi dimensioni dipinte su tessuti e appese per l’occasione su supporti di legno, oppure lasciati liberi di muoversi. In ogni caso srotolati dall’archivio-magazzino-casa dell’artista per la prima mostra personale, che prende il titolo dal suo codice fiscale LGUDGN71R23D341C testimoniando un’esistenza reale.
Perché insieme all’oggettiva presenza dei suoi lavori, si affacciano domande, interrogativi e curiosità intorno all’assenza dell’artista, instillando nel pubblico il dubbio sottile e lucido sulla sua esistenza. Eppure, la sua pittura racconta qualcosa di diverso. Racconta del suo rapporto con la sua realtà mediata dallo schermo (quello della rete e del cinema) in cui i soggetti entrano nel suo immaginario, e diventano forme reali e realistiche, ma con la presenza di elementi estranei (una scritta sbagliata, dei numeri casuali) intromissioni tipiche delle falsificazioni. La sua è una pittura figurativa che sfrutta le potenzialità della tecnologia introducendo l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Ma procede anche usando una singolare tecnica di pittura sul tessuto, che si realizza attraverso strati di oli colore che sperimenta e fissa con una pellicola idrosolubile utilizzata nelle fasi della tessitura.

Srotola le tele recuperate da un’azienda tessile vicina a casa, e dipinge costruendo le immagini partendo dal basso verso l’alto. Procede per fasce senza alcun disegno preparatorio, restituendo scene di vita quotidiana, come la donna che guarda il cellulare nella notte. Attinge alla natura ritraendo animali ripresi dalle fototrappole, o soggetti umani (?) e non umani che emergono da telecamere termiche.
Rimanda a suggestioni cinematografiche nel dipinto della donna che dorme di spalle, come ricorda la citazione di Mr. Okuyama “Civilization demands light, even at night”, personaggio senza volto a causa di un incidente nel film del 1966 di Hiroshi Teshigahara Il volto di un altro. Dal volto mascherato dalle bende del protagonista agli uomini mascherati nella scena rituale posta sotto il lucernario della galleria, con la scritta “many worlds interpretation”, che evoca la tesi sostenuta del fisico Hugh Everett III nel 1957 sulla possibilità di un multiverso, nella meccanica quantistica.

Quelli di D’Eugenio appaiono come mondi possibili filtrati attraverso il suo sguardo, estrapolati da una realtà alterata che si insinuano nella mente dello spettatore. Tra indizi, dettagli e riferimenti a una cultura alta, ma anche alla quotidianità, come nell’uomo-uccello seduto su una poltrona in una stanza, piuttosto che nel dipinto che riprende la pagina di un giornale che mostra ricami fatti a punto croce sulla classica tela aida, o ancora nella coppia sul divano “spiata” da una videocamera di sorveglianza.
Il pubblico non guarda solo le opere, ma assiste all’osservazione del mondo con i suoi gli occhi attraverso prospettive che costruiscono il suo immaginario e la sua realtà. Una realtà che si costituisce all’interno di uno spazio di pochi metri condiviso con i genitori da cui non esce e non entra quasi nessuno. Roberto Cuoghi curatore della mostra e l’amico di sempre Oppy de Bernardo, sono riusciti a superare quel confine in virtù di un rapporto di amicizia e conoscenza che deriva dai tempi dell’Accademia di Brera. Si ha traccia della sua presenza in una mostra collettiva del 2013 cui ha partecipato insieme a colleghi come Riccardo Arena, Giorgio Andreatta Calò, Chiara Fumai, Paola Pivi, e altri ancora intitolata Arimortis, nella Sala Archivi “Ettore e Claudia Gian Ferrari” al Museo del Novecento con DOCVA (Documentation Center for Visual Arts). Per quell’occasione aveva presentato un‘opera con un carro di legno e una bambola in carta pesta vestita a lutto, con le labbra rosse e il capello con la veletta nera.

Luigi D’Eugenio sceglie di allontanarsi dalla comunità per come la conosciamo, con i suoi rituali collettivi, le sue convenzioni, le sue strutture relazionali, per condurre una vita più ritirata lontano dalla socialità e consacrata a una dimensione più umana, verrebbe da dire. Una dimensione in cui l’artista guarda il mondo senza offrirsi allo sguardo degli altri se non attraverso le sue tele. Senza fornire spiegazioni, indicazioni o dichiarazioni di intenti artistici, ma anzi eludendo e sfuggendo da ogni forma di potenziale autorialità per consegnarsi (previa opera di convincimento di Cuoghi e de Bernardo) al pubblico, pur con una certa riluttanza nei confronti di ogni forma mercificazione artistica.
Si tratta di una mostra in cui non si acquista nulla e non si vende niente. Resta solo la pittura di un’artista senza volto ma per scelta, a differenza del film di Teshigahara, che si mantiene distante da qualsivoglia spettacolarizzazione del sé, e dal flusso della (sovra)esposizione tecnologica e mediatica.
Nel film Mr. Okuyama afferma “But a man without a face is free only when darkness rules the world”, e forse allo stesso modo nella scelta radicale (ma meno isolata di ciò che si possa pensare) di Luigi D’Eugenio si realizza quel senso di libertà e di liberazione dalle maschere imposte dalla società con tutte le sue storture. L’uomo è convenzionalmente abituato a classificare ciò che appare non comune come strano, ma forse a guardare bene quello che accade nel nostro mondo, quelli strani siamo noi.