Approfondire il lavoro di KatsukoKoiso (Eugenio Marongiu) equivale a immergersi in un oceano di possibilità creative, tradotte in mondi paralleli dove la sua poetica ci guida in un onirico ben delineato. Ci siamo conosciuti in occasione di un Hackathon dedicato all’IA – non poteva essere diversamente – anche se il suo lavoro aveva catturato la mia attenzione già nelle sue prime sperimentazioni.
Parlando con lui, emergono chiaramente il suo impegno costante e la cura maniacale per i dettagli, radicata nella sua formazione fotografica e rielaborata in un’arte sempre in evoluzione. In questo viaggio tra surrealismo liquido, ironia e confini cibernetici, Eugenio ci offre uno specchio affascinante di ciò che l’arte e l’intelligenza artificiale possono creare insieme.
Non a caso, KatsukoKoiso è un artista molto seguito: con oltre 340.000 follower su Instagram, il suo pubblico – attento e partecipe – dimostra quanto sia viva la curiosità verso i creativi che integrano l’AI nel loro processo creativo.

Un passato nella fotografia, un presente nell’arte: quando nasce KatsukoKoiso? (Quando e come avviene il tuo primo incontro con l’Intelligenza Artificiale come strumento creativo?)
KatsukoKoiso nasce nel novembre 2022. Mi sembra sia successo ieri, e invece sono già passati quasi tre anni. Vengo dalla fotografia, a cui mi dedico professionalmente da oltre sedici anni dopo gli studi al CFP Bauer di Milano, dove oggi insegno anche l’uso dell’intelligenza artificiale per la generazione di immagini. La curiosità mi ha sempre spinto a esplorare nuovi linguaggi e soluzioni estetiche, e in quel periodo percepivo l’arrivo di qualcosa di inedito, anche se non riuscivo ancora a definirlo. Allo stesso tempo il mercato fotografico che seguivo da anni — quello delle immagini stock, in qualche modo vicino alla logica della generazione AI — stava vivendo una fase di declino, e io sentivo il bisogno, professionale ed espressivo, di reinventarmi. Dopo una breve parentesi nel mondo degli NFT mi sono imbattuto in MidJourney: lì si è aperto un orizzonte inatteso. Improvvisamente non c’erano più confini all’immaginazione: potevo esplorare, viaggiare, sognare. È stato il vero punto di svolta, la scintilla che ha dato vita a tutto.
Il tuo nome evoca un rimando al Giappone (come anche molte tue opere). Ci racconti il tuo rapporto con la cultura giapponese?
La scelta di un nome giapponese è nata quasi per gioco. KatsukoKoiso era un esperimento: all’inizio non sapevo bene dove stessi andando, volevo provare e restare anonimo. Per questo ho scelto un’identità che fosse l’opposto di me: io sono un uomo sardo; il nome che ho adottato è quello di una donna giapponese. L’ho trovato con un generatore di nomi casuali e mi ha colpito subito. È vero, il Giappone mi affascina, ma non sono uno di quelli ossessionati o specialisti della sua cultura: il mio rapporto passa più per le immagini che per lo studio. Non sono un citazionista, piuttosto una spugna visiva: assorbo atmosfere e suggestioni e le trasformo. La sorpresa è arrivata dopo: il profilo Instagram su cui avevo lanciato l’esperimento è letteralmente esploso, e lì ho capito che KatsukoKoiso non era più un test, ma la mia nuova identità.

Il 29 novembre 2022 pubblichi il tuo primo lavoro AI sui social: una “woman from an impossible world”. Quando hai capito che l’AI sarebbe diventata il tuo strumento espressivo principale?
Con la nascita della fotografia, molti pittori che non avevano trovato la loro voce nella pittura scoprirono improvvisamente un nuovo linguaggio capace di liberarli. Io mi sento esattamente così. Nella generazione di immagini e video con l’intelligenza artificiale ho trovato il mio vero strumento espressivo: un mezzo quasi senza limiti, capace di dare forma a temi profondi e personali che con la fotografia non ero mai riuscito a esprimere fino in fondo.
Dalla prima “woman from an impossible world” — che ai miei occhi sembrava un piccolo miracolo — è iniziato un percorso in continua evoluzione: dalla creazione di immagini alla loro animazione, fino alla costruzione di video. A un certo punto ho scelto di staccarmi dalla grammatica fotografica per spingermi oltre, costruendo mondi incredibili che, pur nella loro dimensione onirica, parlano di questioni attuali, intime e sociali. È lì che ho capito: l’AI non era un esperimento, ma il mio linguaggio principale.
Molte tue figure si intrecciano con concetti chiave del postumanesimo e del transumanesimo. Mi vengono in mente, tra gli altri, Donna Haraway, Yuval Noah Harari e il visionario William Gibson.
Sarò sincero: non ho mai letto Haraway, Harari o Gibson. La mia influenza non viene dalla teoria, ma da un rapporto naturale con la tecnologia e con il tempo che stiamo vivendo. I loro temi mi sembrano già presenti nell’aria, incarnati negli strumenti che usiamo e nelle trasformazioni che attraversiamo ogni giorno. La mia fascinazione per il futuro e per le estetiche tecnologiche nasce proprio da questo contatto quotidiano con l’innovazione.
Per questo il mio lavoro finisce per dialogare con molte delle stesse questioni, ma lo fa in modo autonomo, partendo dall’esperienza diretta e dall’immaginazione visiva. È stata anche la necessità di andare oltre il fotografico e il reale — linguaggi con cui mi confrontavo da oltre sedici anni — unita alla consapevolezza di come la nostra società si stia trasformando, a spingermi verso mondi distopici, postumani e transumani. Credo sia una conseguenza naturale della nostra evoluzione: è evidente, lo vediamo sotto i nostri occhi. Nel rappresentare tutto questo cerco però sempre di instillare il dubbio, non di dare risposte: dove ci porterà? È davvero il mondo che vogliamo? Ne sono affascinato e allo stesso tempo spaventato, ed è proprio questa tensione a stimolarmi di più.

Nelle tue opere emerge una forte tensione tra iperdefinizione, surrealismo 4.0 e dimensione onirica. Se dovessi definire il tuo stile, come lo descriveresti?
Lo definirei **Surrealismo Sintetico**. Non si tratta di iperdefinizione, perché la qualità delle immagini e dei video generati non è ancora paragonabile a quella della fotografia o del cinema tradizionale. Quello che mi interessa è l’incontro tra il ragionamento algoritmico della macchina e i miei input creativi: da questa tensione, e spesso dalla serendipità degli esiti inattesi, nasce qualcosa di nuovo, paradossale, onirico, surreale. È un linguaggio che sta a metà: riconosci il reale, ma lo vedi deviato, trasformato. Un surrealismo 4.0 che appartiene al nostro tempo e che trova nell’imperfezione e nelle scoperte impreviste lo spazio per creare.
I social hanno rappresentato per te un’opportunità che hai saputo cogliere. Il tuo pubblico è principalmente italiano o internazionale?
Instagram per me è stato fondamentale. Non lo considero più solo un social, ma una vera piattaforma professionale dove diffondere e far crescere la propria arte. Certo, ha i suoi limiti, ma resta uno strumento potentissimo sia sul piano artistico che su quello professionale. Pubblicando semplicemente le mie sperimentazioni, i miei studi e le opere finite, ho costruito una community solida che ancora oggi mi segue e mi sostiene.
Il mio pubblico è soprattutto internazionale, e credo che questo sia legato anche al mio pseudonimo, KatsukoKoiso. Sin dall’inizio ha generato domande: chi è, da dove viene, uomo o donna? Questo alone di incertezza ha reso il progetto più universale, perché ognuno poteva proiettare le proprie interpretazioni senza legarle a un contesto preciso. Ancora oggi molti follower, provenienti da parti diverse del mondo, continuano a chiedersi chi io sia davvero. In un certo senso, è proprio questa apertura a rendere il mio lavoro internazionale: non appartiene a un luogo o a un’identità fissa, ma a una dimensione condivisa.

Negli ultimi anni le estetiche AI sono cambiate rapidamente.Come ti relazioni a questa caratteristica dell’AI?
L’errore per me è stato sempre fondamentale, soprattutto nei primi lavori, quando era evidente e io non lo nascondevo: anzi, lo rendevo parte della mia scelta. Uno dei miei primi progetti diventati virali ne è la prova: più di un milione di like e migliaia di commenti, molti dei quali critici, proprio per gli errori — troppe mani, braccia distorte, dita in più. Io però li trovavo affascinanti, come da sempre trovo affascinanti le imperfezioni nella vita reale. Mi sono sempre sentito un diverso, fuori luogo, e in quegli errori ho riconosciuto qualcosa di mio, che ho ostentato con orgoglio anche nei lavori AI.
Per questo trovo un po’ noioso che oggi molte aziende inseguano soltanto l’iperrealismo e l’immagine perfetta. Capisco la logica, ma non mi ci ritrovo del tutto. Con i nuovi aggiornamenti — che corrono a una velocità incredibile — sto cercando strade per mantenere quell’imperfezione: anche nel bello voglio che ci sia un errore, una crepa, qualcosa che incrini la perfezione. Non per forza in modo estremo, ma abbastanza da ricordarci che proprio lì si nasconde la verità.
Se ti dico “bias”, cosa mi rispondi?
Credo di aver già risposto in parte alla domanda precedente. I bias sono i pregiudizi della macchina, il riflesso diretto dei bias della società: stereotipi, squilibri, visioni parziali che finiscono per emergere nei risultati. Per questo il primo output non è mai quello giusto: è solo la superficie, la ripetizione di ciò che già conosciamo. Il lavoro vero sta nell’andare oltre, nel cercare il significato che non si vede subito. È quello che ho sempre provato a fare con i miei prompt: usare l’AI non per confermare i pregiudizi, ma per superarli e trovare immagini nuove, libere da quelle gabbie.
Invece della classica domanda sull’autorialità ti chiedo: quali sono le grandi sfide creative di lavorare con le GenAI?
Credo che, al contrario di chi ancora pensa che l’AI sia “il male” — e ormai sono pochi, visto che sempre più persone si affacciano a questo mondo — le GenAI offrano opportunità enormi. La vera difficoltà è fare ordine, capire come orientarsi in un campo così vasto. Oggi le possibilità espressive sono praticamente infinite, e per questo dico sempre che la chiave è l’idea. La vera sfida non è più la tecnica, ma avere un’idea che abbia senso, valore, significato, e che magari riesca anche a colpire. In un contesto sempre più democratizzato, la “gara” sarà sempre più sulle idee.
E allora mi chiedo, con un pizzico di provocazione: in un futuro forse nemmeno troppo lontano, sarà ancora necessario creare per un pubblico? O arriveremo a un mondo in cui ognuno crea solo per sé, in un dialogo solitario con la propria immaginazione?

Lavori futuri e visioni in divenire: nuovi strumenti, tecnologie da sperimentare? Collaborazioni o mostre in previsione?
La mia visione più grande è sentirmi libero: libero di creare e di sperimentare cosa, quando e come voglio. In questo mondo c’è tanta mania di controllo, di voler incasellare e manipolare, ma io sento il bisogno opposto: libertà creativa, la possibilità di sfruttare le AI per quello che sono, strumenti con potenzialità incredibili e praticamente senza limiti.
Sul piano concreto, dal 13 settembre 2025 al 7 giugno 2026 due mie opere saranno esposte al Karuizawa New Art Museum in Giappone mentre l’11 Ottobre c’è stata l’inaugurazione della mia personale a Roma presso la galleria NITIDO (ora in corso) – Exhibition & Body Art. Ho appena concluso un progetto video musicale con la Filarmonica di Milano in collaborazione con OOVIE Studios, che rappresenta un ulteriore passo nella sperimentazione tra musica, immagine e intelligenza artificiale.
A questi si aggiungono altri progetti di cui per ora non posso ancora parlare, ma che contribuiranno a portare avanti questa mia ricerca. In generale, la mia sperimentazione va di pari passo con l’evoluzione tecnologica: avere accesso come alpha e beta tester a molte delle piattaforme più avanzate è un vantaggio enorme, che mi consente di esplorare nuove estetiche e soluzioni espressive in tempo reale. Non vedo l’ora di scoprire dove ci porteranno i prossimi sviluppi e, soprattutto, di metterli alla prova per spingermi sempre un po’ più in là.



