The Last of Us 2: la vendetta come unica grammatica emotiva

Dopo il successo globale della prima stagione, The Last of Us torna con una seconda serie che abbandona l’epica per addentrarsi nei territori del trauma, del rancore e dell’impossibilità del perdono. Ideata da Craig Mazin (Chernobyl) e Neil Druckmann – autore dell’omonimo videogioco Naughty Dog da cui la serie è tratta – la stagione adatta il secondo capitolo videoludico con una fedeltà formale che non rinuncia, tuttavia, a una propria grammatica televisiva.

A guidare il cast ritroviamo Bella Ramsey, che conferma la sua intensità nel ruolo di Ellie, qui più cupa e vulnerabile, mentre Pedro Pascal compare solo brevemente nei panni di Joel, il cui destino tragico costituisce il motore drammatico della nuova stagione. Accanto a loro si aggiungono nuovi volti fondamentali per la narrazione: Kaitlyn Dever nei panni della tormentata Abby, e Isabela Merced in quelli di Dina, compagna e fragile contrappeso emotivo alla deriva interiore di Ellie.

La seconda stagione di The Last of Us segna un deciso cambio di passo rispetto alla prima. Laddove il primo capitolo raccontava un viaggio fisico, emotivo, tra Joel ed Ellie, questa nuova stagione si concentra invece sul prezzo del dolore e sulla spirale della vendetta. Ne nasce una storia più cupa, talvolta spigolosa, ma sempre animata da una tensione emotiva potente. Il cuore narrativo è il trauma: Joel viene ucciso brutalmente da un gruppo guidato da Abby, personaggio che diventerà per Ellie l’oggetto di un’ossessione cieca. Fin da subito la serie rinuncia a ogni possibile arco redentivo per abbracciare la geometria della vendetta, senza alcuna concessione emotiva.

Bella Ramsey offre una prova intensa, dolorosa, asciutta. Ellie non è più la ragazzina sarcastica e curiosa della prima stagione: è una giovane donna spinta da una rabbia cieca. La sua interpretazione è tutta nel corpo, nello sguardo. Accanto a lei, Isabela Merced nel ruolo di Dina; il loro rapporto è forse il segmento più tenero della stagione, e rappresenta l’ultima possibilità di umanità in un mondo che sembra aver dimenticato il significato della parola amore.

Mentre la sua nemesi, Abby, che nel videogioco godeva di un lungo arco narrativo, qui riceve meno spazio e sviluppo (che verrà presumibilmente approfondito nella prossima stagione). Kaitlyn Dever offre un’interpretazione efficace, ma il personaggio soffre la compressione e non solo. A pesare è anche una discrepanza visiva che rischia di indebolire l’impatto del personaggio rispetto alla sua controparte videoludica. Nel gioco, Abby è definita da una fisionomia muscolosa, potente, quasi brutale: il suo corpo è il riflesso tangibile di anni di addestramento militare e della determinazione feroce che la guida. Una fisicità non solo funzionale alla narrazione, ma simbolica — una corazza costruita per sopravvivere e combattere, per essere all’altezza della vendetta che consuma anche lei.

Questa componente, tuttavia, si perde in parte nella traduzione televisiva. Kaitlyn Dever, pur convincente sul piano emotivo, non incarna la presenza fisica massiccia che aveva reso Abby così iconica nel gioco. Il risultato è una versione del personaggio meno intimidatoria, meno scolpita, e quindi meno incisiva nel suo portato simbolico. È un’occasione mancata, perché quella specifica corporeità non era solo estetica, ma profondamente narrativa: contribuiva a raccontare il trauma, la rabbia, e la trasformazione che Abby ha attraversato. Rinunciare a quella forza visiva significa, in parte, indebolire l’ambiguità morale e la carica emotiva che il personaggio portava con sé.

Dal punto di vista tecnico, la stagione è impeccabile: la fotografia è costante nella palette livida e naturale, con una gestione realistica della luce che accentua il senso di decadenza. Il lavoro di scenografia resta uno dei punti di forza: le rovine di Seattle diventano il teatro di un conflitto interiore e fisico. La regia, affidata a vari autori, ma sempre coerente nel tono, costruisce un mondo diviso, in preda a una guerra senza fine.

Le sequenze d’azione sono intense, violente, crude. Nessuna estetizzazione, nessuna glorificazione. Una scelta formale coerente con la visione generale, ma che a lungo andare produce un effetto di anestesia: tutto è cupo, tutto è grave. Un altro problema evidente è il ritmo. L’assenza di variazioni tonali, di sottotrame realmente significative o di personaggi secondari sviluppati, rende la visione faticosa. La densità drammatica non è bilanciata da una stratificazione narrativa. Ogni episodio ruota attorno allo stesso nucleo: perdita, rabbia, vendetta. Senza contrasto, il dramma si appiattisce.

La seconda stagione The Last of Us resta un prodotto tecnicamente ineccepibile, narrativamente ambizioso. Non è solo una serie sull’apocalisse: è una lunga meditazione sulla perdita. Ogni personaggio agisce in base a ciò che ha perso: Joel aveva perso sua figlia, Ellie ha perso Joel, Abby ha perso suo padre. E ognuno, in modo diverso, cerca di riempire quel vuoto. È una storia sulla vendetta, ma soprattutto sul costo della vendetta, che non cerca consensi facili, non concede catarsi, ma si impone come una riflessione spietata sull’irreversibilità del dolore e sull’impossibilità — o forse l’inutilità — del perdono in un mondo in frantumi.

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