The Smashing Machine: quando il cinema combatte senza colpire davvero

The Smashing Machine, presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, non può sottrarsi all’ombra lunga di The Wrestler, capolavoro con cui Darren Aronofsky nel 2008 scolpì l’epopea malinconica di Randy “The Ram” Robinson e vinse un Leone d’oro che sembrava il suggello di un’epoca. Oggi, a distanza di diciassette anni, il cinema torna a guardare al ring ma lo fa con un linguaggio diverso: più levigato, più ansioso di piacere, meno disposto a farsi male davvero.

Dietro la macchina da presa c’è Benny Safdie, per la prima volta senza il fratello Josh, che sceglie come protagonista un’icona popolare difficilmente immaginabile in simili territori: Dwayne “The Rock” Johnson. Un colosso granitico che, paradossalmente, trova proprio nella fragilità di Mark Kerr – pioniere delle arti marziali miste, vittima di dipendenze, prigioniero di relazioni tossiche – l’occasione per mostrarsi vulnerabile, timido, quasi puerile. Un gigante che trema. Eppure, in questa parabola di cadute e risalite, il film sembra smarrire il coraggio di affondare i colpi. Safdie tratteggia il suo protagonista come un eterno bambino più che come un uomo lacerato, circondandolo di un’aura di innocenza che sfiora l’agiografia. Emerge un racconto che oscilla senza mai decidere il proprio baricentro: è un dramma sulla dipendenza dagli oppiacei? Una meditazione sulla fame di vittoria? Una cronaca di amore e incomprensioni domestiche? Tutto e nulla allo stesso tempo.

Le scene oscillano tra il simbolico e il caricaturale: dal vaso ricomposto col kintsugi, metafora d’amore troppo didascalica per commuovere, alle riprese casalinghe rubate da spigoli e stipiti, che vorrebbero restituire un’intimità spoglia ma finiscono per apparire compiaciute.

A risollevare il materiale visivo provano le interpretazioni: Johnson, sorprendentemente capace di piegare il proprio corpo monolitico in una postura fragile, ed Emily Blunt, compagna vorace e inappagata, danno spessore a un racconto che però scivola spesso in atmosfere ridonanti e senza una direzione precisa. La loro chimica, già intravista in Jungle Cruise, qui assume contorni più tesi, ma resta intrappolata in una sceneggiatura che preferisce smussare ogni asperità piuttosto che sporcarsi le mani. 

The Smashing Machine mette in campo molti temi senza però approfondirli davvero: lo sport, l’amore, la dipendenza, i sacrifici, i tornei, le sconfitte. Cosa ha significato per Mark Kerr essere un pioniere delle arti marziali miste? Quali prove ha dovuto affrontare? Perché la relazione con Dawn è segnata da contrasti così estremi, fatta di slanci e cadute? Qual è la loro storia passata? Sono interrogativi che restano sospesi, senza trovare risposta. Lo spettatore è così costretto a colmare i vuoti, cercando di intuire dai frammenti chi siano davvero i protagonisti e quale fosse l’intento narrativo del film.

Il risultato è un film che, pur mostrando talento registico e mezzi produttivi notevoli, non osa mai spingersi davvero nell’abisso del dolore. A differenza di The Wrestler, che era carne viva, sudore e ferite aperte, The Smashing Machine sembra un prodotto sterilizzato, quasi uno spot patinato che esita davanti alla tragedia per ripiegare su una consolazione tiepida. E nel confronto, inevitabile, perde non solo con il capolavoro aronofskiano, ma anche con opere più recenti e meno celebrate, come The Iron Claw, capaci di sondare con maggiore crudezza le ombre della lotta.

Resta così un’opera che vorrebbe scuotere ma finisce per accarezzare, che mostra gli spigoli solo per addolcirli subito dopo. E se il cinema, come la lotta, vive di rischio e di impatto, qui il colpo non arriva mai davvero a segno.

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