Era il 2015 quando DIE, secondo album di Jacopo Incani alias iosonouncane, portava nella musica italiana una nuova traiettoria sonora e poetica, capace di fondere sperimentazione elettronica, memoria mediterranea e tensione politica in un’opera unica e inconfondibile. Oggi, a distanza di un decennio, DIE non è solo un disco di culto, ma una tappa fondativa nel percorso di un artista che ha continuato a esplorare i confini del suono, della parola e del gesto politico, senza mai rinunciare alla propria integrità espressiva.
Un percorso che ha trovato un nuovo importante riconoscimento con il David di Donatello 2025 per la Miglior Colonna Sonora, assegnato a Incani per le musiche del film Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre. Un’opera che intreccia suono e memoria, storia collettiva e biografia intima, attraverso una composizione che riflette la forza tragica e visionaria della figura di Enrico Berlinguer.
In questa prima parte dell’intervista, Incani riflette su quel momento spartiacque rappresentato da DIE, rivendicandone la coerenza poetica, ma anche i limiti artigianali. Parla di attraversamenti — di suono, di paesaggi, di epoche — e del valore del gesto, più che della forma. Dal silenzio stratificato di Buggerru alle voci di Berlinguer e della storia, ogni opera diventa, nelle sue parole, un campo di forze, uno spazio da attraversare e in cui farsi attraversare.

DIE ha compiuto dieci anni. È un disco che ha segnato un prima e un dopo, un lavoro che ha definito una traiettoria, anche un’estetica politica e poetica. Se ti guardi indietro oggi, che cosa vedi? E cosa rimane – o si è trasformato – di quei sentimenti che lo animavano?
Se guardo indietro ai giorni in cui scrivevo DIE vedo una totale continuità e coerenza poetica. In questo senso nulla è mutato in me, ma direi già da La Macarena su Roma, nel senso che da un punto di vista artigianale, nella realizzazione tecnica, ho un sacco di cose da ridire, un sacco di limiti che in quel momento avevo e che continuerò ad avere. Limiti di volta in volta diversi, per fortuna, ma che comunque rimangono sempre dei limiti. Dal un punto di vista poetico, invece, rivendico tutto. Io penso che nel momento in cui un autore arriva ad avere una sua scrittura, quando cioè ha la fortuna di arrivare a questa condizione, quello che scrive non invecchia di per sé, quindi non si distanzia. È semplicemente una tappa. Io a questa maturità, chiamiamola così, ci sono arrivato con La Macarena su Roma, ma l’ho pubblicato che avevo 27 anni.
Prima ho pubblicato un sacco di cose, o comunque pubblicato alcune cose con la band Adharma e scritte tante altre. Di tutte quelle cose, solo pochissime, una manciata, sento come medicine da un punto di vista poetico. Quindi, se mi guardo indietro vedo un lungo tragitto fatto di tanti passaggi e tante evoluzioni ma comunque una piena aderenza da un punto di vista poetico e politico, con quello che ho scritto 10 o 15 anni fa.

Il suono attraversato. È un titolo magnifico, evocativo ma anche sovversivo. Cosa significa per te attraversare il suono? E che tipo di ferite lascia attraversandoti?
Il titolo ”Il suono attraversato” ha una duplice valenza. Significa appunto l’aver attraversato il suono, quindi qualcosa che ho fatto io, e allo stesso tempo il mio suono attraversato dalla poetica di altri autori. In entrambi i casi significa acquisire vita, acquisire mutamento, movimento, e quindi vita stessa. Per quanto riguarda il mio attraversare il suono significa semplicemente che in tutti questi anni, da La Macarena su Roma, o forse già da prima, la cosa che io ho fatto è stata sempre cercare di lavorare sul suono, cioè inseguire una dimensione sonora.
In questo senso mi sembra di aver proprio attraversato nel tempo un paesaggio ricco di suoni. Probabilmente questa cosa, come tante, viene dalla morfologia del paese in cui sono cresciuto, Buggerru, che è in una gola con due versanti, col mare davanti e attraversato per tutta la lunghezza da una arteria principale. Attraversare il paese, dal porto alla cima o al contrario, significa proprio attraversare il suono di quello spazio in cui ogni elemento rimbalza da una parte all’altra e crea una percezione di tridimensionalità dello spazio costante, che non esiste in uno spazio pianeggiante.
Significa proprio attraversarlo fisicamente, attraversare fisicamente anche le illusioni sonore che produce. Quindi il suono attraversato significa questo: il tragitto, la strada che io sto facendo, che continuo a fare attraverso questo paesaggio fatto di suono, che io cerco di volta in volta di codificare e in un qualche modo modificare, o definire. E poi appunto la mia poetica, il mio suono attraversato dalla poetica degli altri. Attraversare uno spazio significa venire modificati, venire da quello stesso spazio modificati e allo stesso tempo lasciare qualcosa in quello spazio, e quindi attraversare e farsi attraversare.

In entrambi i lavori – Berlinguer e Lirica Ucraina – affronti figure o momenti storici densissimi. C’è un suono politico? Se sì, com’è fatto? È sempre necessario dire, oppure oggi è più rivoluzionario suggerire?
Io sono convinto che possono esistere due possibili risposte a questa domanda. Esistono, le opere politiche in senso alto, e sono quelle che indagano la dimensione esistenziale dell’uomo, e quindi che cercano di comprendere cosa tenga in vita l’uomo e cosa tenga in vita l’uomo nella relazione con tutti gli altri. Ma tutte le opere d’arte fanno questo, anche quelle inconsapevoli, perché comunque sono sempre testimonianza di una visione o di una vita poetica, anche quando sono totalmente inconsapevoli di ciò. Tutte le opere, da un certo punto di vista, sono politiche, perché restituiscono un’impronta di un modo di essere al mondo che è quello dell’autore, ma che inevitabilmente diventa collettivo, perché ogni esistenza è il punto di intersezione di 1000 altre esistenze.
E quindi ogni esistenza è in un qualche modo soggettiva e oggettiva, e privata e politica. Un’opera d’arte, secondo me non è una diramazione. Non è soltanto la diramazione dell’autore, ma è qualcosa che l’autore genera e che dall’autore si stacca, e che è molto più dell’autore stesso. Anche quando l’opera è scadente o non ha valore, è comunque testimonianza di qualcosa. Quindi, tutte le opere d’arte sono politiche da questo punto di vista storico contingente e quindi non esistenziale, non assoluto. Non esiste un suono politico, non può esistere un suono politico.
Esiste piuttosto un gesto politico che fa diventare un suono politico. Un suono può acquisire valore politico in un dato contesto, perché acquisisce anzitutto un valore etico, esprime una dimensione etica, e per etica ovviamente intendiamo un paradigma valoriale che l’autore porta avanti, propone, e che riguarda gli esseri umani nel relazionarsi fra di loro. In generale, al di là di queste due possibili diramazioni, quello che ha valore e che importa non è un valore politico assoluto in se’ di un’opera, ma il gesto politico che è il realizzare una determinata opera comporta. Il valore, la forza di un’opera devono essere misurati sulla lunga distanza e quindi anche prendendo in considerazione l’evoluzione politica di un determinato autore.

Nel film su Berlinguer si parla anche della sua introversione, della forza della sua voce, del suo dolore. Ti sei riconosciuto in quella figura? Ti sei sentito addosso una responsabilità particolare, nel raccontarlo attraverso la musica?
Sicuramente mi sono riconosciuto nell’introversione di Berlinguer. Credo, tirando le somme in maniera un po’ grossolana, sia un tratto distintivo in generale una certa malinconia dello sguardo, una certa introversione dei sardi, e sono convinto che le condizioni paesaggistiche incidano enormemente. Proprio la morfologia del paesaggio e tutto quello che comporta, quindi il senso delle distanze, dello spazio, del silenzio, dei vuoti incidano nella visione del mondo di un popolo, nell’attitudine istintiva, emotiva, inconscia del relazionarsi alla vita e alla morte. Quindi che ci sia proprio un tratto distintivo dei sardi in questo senso, e questo è lo si può dedurre molto facilmente facendo un rapido excursus di tutta la produzione letteraria sarda. Dalla Deledda, o anche Sebastiano Satta, fino a Marcello Fois, passando attraverso l’opera di alcuni registi come Columbu e Mereu, c’è sempre un senso di tragico che è inscindibile e indistinguibile da una dirompente vitalità. Berlinguer era la sublimazione di queste due caratteristiche, appunto perché nonostante estremamente introverso, riusciva comunque a tenere davanti a sé una folla di 800.000 persone solo con la propria voce e la forza dei ragionamenti. Un’altra cosa che credo di aver sentito vicina, ma credo anche tantissime persone che votano la propria esistenza a un’ideale.
Io credo che nel caso di Berlinguer, che ha perso la madre da bambino, sia stata questa grandissima assenza a spingere un giovane aristocratico sassarese ad abbracciare una dimensione ideale in cui l’umanità, incarnata dagli ultimi, ha finito col riempire il vuoto lasciato da quella madre. Come se lui avesse travasato quell’assoluto, quel cerchio allegorico della madre assente a un’umanità da accogliere. Io credo che al fondo ci sia sempre comunque uno strappo, un’assenza che per continuare a vivere si cerca sempre di colmare. E in questo senso credo che Berlinguer sia una sublime espressione di questo processo e in questo, ovviamente, per quella che è la mia storia personale, io mi sono vicino.
Non ho sentito maggiore responsabilità. Quando lavoro ai miei dischi o immagini di altri, sento sempre una drammatica responsabilità. Sento sempre che mi sto giocando tutto e che devo fare il meglio possibile al servizio della poetica di altri. Ma fare il meglio possibile al servizio della poetica di altri autori significa preservare totalmente la mia. Che io debba musicare la vita di Berlinguer o di due bimbe youtuber di Napoli, come mi è capitato di fare per il documentario Marghe e Giulia per me non c’è differenza, il senso di responsabilità è lo stesso.