Trasformare la morfologia sonora in musica. Iosonouncane, il David di Donatello e i 10 anni di DIE pt 2

Con la vittoria del David di Donatello 2025 per la Miglior Colonna Sonora grazie alle musiche di Berlinguer – La grande ambizione, Jacopo Incani conferma la sua capacità di attraversare le immagini, la storia, il linguaggio, portando con sé una poetica sonora riconoscibile ma in costante mutazione. Se nella prima parte dell’intervista abbiamo ripercorso le origini di quella voce — da La Macarena su Roma a DIE, passando per la nozione di suono come spazio e attraversamento — in questa seconda parte entriamo nel cuore delle sue recenti esperienze cinematografiche.

Dalla guerra raccontata in Lirica Ucraina alla riflessione sul mestiere e sul rito, sul suono come gesto e sul mercato come vincolo, Incani affronta con lucidità il peso dell’espressione artistica in tempi di crisi, e il senso profondo della parola libertà. È un viaggio nella costruzione di un linguaggio che si sottrae alla pornografia del pathos, alla retorica del dolore, per restituire una visione. E, infine, nel suo paesaggio interiore, che resta legato a Buggerru, luogo dell’anima e della memoria, tra desiderio di riparo e impulso all’oltre.

Photo Silvia Cesari

Lirica Ucraina è un pugno allo stomaco e uno alla coscienza. In un’epoca di guerra permanente e spettacolarizzazione del dolore, come si compone musica per un film del genere senza cadere nella pornografia del pathos?

Allora questa è stata una questione cruciale nella lavorazione di Lirica Ucraina ma anche per il documentario Marghe e Giulia che ho fatto anni fa, che parla di due sorelline, due bambine youtuber con tutta la famiglia coinvolta in questa attività. In entrambi i casi la cosa più difficile all’inizio è stata trovare una via d’accesso al lavoro che non suggerisse né i sentimenti da provare, né un giudizio morale su quello che si stava osservando. Nel caso di Lirica Ucraina la grande difficoltà era evitare di scrivere musica che risultasse essere lacrimevole, paternalistica o pietosa/pietistica, pur scrivendo, ovviamente musica carica di pietas. Per me si è trattato di trovare una via sonora, armonica, ritmica, timbrica per mettere in musica una mia presenza umana, una mia estrema vicinanza ma mantenendo la distanza.

Un’eccessiva messa in opera dei sentimenti dell’autore fa male a un qualsiasi lavoro artistico perché il sentimento lacrimevole, soprattutto davanti a una tragedia, è immediatamente retorico e non necessario a un lavoro d’indagine autoriale. Poi stiamo parlando di un’opera frutto di un procedimento che è artistico perché è frutto di una serie di scelte di natura tecnica, estetica e artistica. Non esiste possibilità di una restituzione piena della realtà. Per fortuna esiste invece la grandissima possibilità di restituire un’impressione di realtà attraverso la visione autoriale di uno o più autori, che è quello che Io credo in questo momento, manchi tantissimo nella produzione artistica, soprattutto musicale, italiana: la visione di alcuni autori. Quindi nel momento in cui ho dovuto raccontare col suono la guerra ho lavorato in esclusione, provando delle soluzioni e vedendo direttamente sulle immagini l’effetto che generavano, perché se la musica agisce sullo stesso piano drammatico delle immagini non serve a niente.

In tutto il tuo lavoro — dai primi dischi ad IRA, fino a queste colonne sonore — c’è una costante tensione verso il suono come linguaggio primario, quasi arcaico. Dove finisce il mestiere e comincia il rito mentre componi?

L’acquisizione del mestiere, Io credo serva anzitutto a oliare e accelerare la capacità istintiva, quella che viene chiamata banalmente ispirazione, e l’ispirazione è fatta di processi rituali nell’esprimersi. L’espressione dell’ispirazione passa sempre attraverso un metodo che si consolida anche solo interiormente.  Un metodo interiore di gestione proprio dell’idea. Il mestiere serve a creare le condizioni perché questa fantomatica ispirazione possa esprimersi sempre nel tempo. Ma l’ispirazione non esiste, ovviamente. L’ispirazione è una capacità cognitiva estremamente allenata, cioè la capacità di mettere in connessione cose apparentemente lontane, o la capacità di intuire da un oggetto pensato, osservato, immaginato quello che ancora non c’è. Quella è l’ispirazione, e questa viene oliata appunto dal mestiere, viene resa possibile dal mestiere.

Viviamo in tempi in cui la parola “libertà” è spesso strumentalizzata. Cosa vuol dire per te, nella musica e nella vita, essere libero?

Allora nella vita non lo so cosa significhi essere libero, cioè nel senso può significare veramente tantissime cose. Sicuramente una piccola libertà nella mia vita e’ quella di essere riuscito a ritagliarmi una dimensione esistenziale che coincide in buona parte con quella che è la mia natura di essere umano, cioè il fatto di essere un autore, un musicista, un compositore. La libertà è riuscire in un qualche modo a vivere nell’esistenza che ti appartiene. Perché per me scrivere musica è il mio modo di stare nel mondo e di stare anche nella storia, in mezzo agli altri e nel divenire. Il poterlo essere è sicuramente una grande fortuna, ed è una libertà. Tutto il resto è veramente complesso. La libertà esiste davvero in natura? Come dice De André in ‘’Se ti tagliassero a pezzetti’’, me lo chiedo sempre.

La libertà è un concetto assoluto o è un concetto relativo? Questo forse dovremmo chiarircelo prima di rispondere una domanda del genere. In musica la libertà credo che si possa rintracciare nel portare avanti un proprio discorso a prescindere dal mercato, soprattutto in un’epoca come questa in cui le maglie del mercato sono spaventosamente stringenti. Le piattaforme di streaming sono violentemente stringenti perché l’algoritmo e le playlist funzionano per somiglianza. Accorpano le opere, le canzoni, la musica per somiglianza e quindi stare nel mercato oggi significa sforzarsi di produrre qualcosa che somigli già ad altro, in modo tale da poter essere a quell’altro accorpati e quindi ascoltati.

Quindi in questo momento storico, in musica libertà significa certamente riuscire a trovare la forza di scrivere e indagare la propria poetica, fare ricerca musicale a prescindere dalle aspettative del mercato. I Beatles hanno scritto dei capolavori sedendosi uno di fronte all’altro, perché dovevano per forza di cose consegnare dei 45 giri e da questa necessità del mercato sono partiti facendola diventare un punto in un momento storico in cui il mercato ti chiedeva di distinguerti, non di assomigliare. Questo è proprio un paradigma psicologico, politico differente. In questo momento il mercato ti chiede di somigliare a qualcosa che già c’è. Ma, per citare forse il più grande autore di testi e il più grande cantante che l’Italia abbia mai avuto, ‘’Il somigliare agli altri non ci salva’’.

La Sardegna, Bologna, le rovine, la guerra, la politica, il corpo, il suono. Ci sono sempre dei paesaggi nei tuoi dischi. Come descriveresti oggi il tuo paesaggio interiore?

Il mio paesaggio interiore, da un punto di vista strutturale è sempre lo stesso ed è quello che ho acquisito nei primi anni di vita. Io credo che le mie coordinate emotive, psicologiche inconsce morfologicamente abbiano la stessa forma del paese in cui sono cresciuto. E quindi esista uno spazio che è spinto verso il mare alle proprie spalle, e braccato e spinto verso la terra dal mare di fronte.

È un paesaggio che quindi vive di questa continua tensione fra la necessità di chiudersi e di ripararsi, e il desiderio e la spinta alla ricerca. Ovviamente, così come Buggerru, posso dentro di me splendere di giornate soleggiate e di mare piatto come una macchia d’olio, oppure essere adombrato da nubi nere che rendono tutti i colori che pochi istanti prima erano sfavillanti e molteplici, di un di un grigio pesto e minaccioso. Probabilmente con l’età sto imparando a capire che accade questo e quindi in qualche modo, riesco a spaventarmi meno.

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