Assistere a un lavoro di Jan Fabre, artista visivo e regista tra i più radicali e innovativi della scena contemporanea, può cambiare la percezione che si ha del teatro e della performance. Spettacoli dallo stile iconico in cui il corpo dei “guerrieri della bellezza”, come Fabre chiama i propri performer, ha un ruolo centrale, con la sua fisicità, quasi violenta, capace di trasformare un gesto in rito. Il corpo si fa manifesto politico da cui attingere e dare vita a nuove scene, nuove vite. Con oltre quarant’anni di carriera, l’artista belga (Anversa, 1958) ha costruito un linguaggio unico capace di intrecciare arte, filosofia, scienza, tradizione e spiritualità, in un unico personale universo creativo. E in questa pratica, Jan Fabre continua a ricordarci che c’è una forma di resistenza che non si misura in slogan ma nella capacità di restare fedeli alla preziosa fragilità dell’arte e alla libertà di pensiero. È questa la resistenza che da quarant’anni anima l’opera di Jan Fabre, facendo del teatro un luogo dove l’arte non si limita a essere rappresentata, ma si esercita come pratica vitale che tiene lontano da quello che ci si aspetta e si può prevedere
Emozioni forti ha suscitato ancora una volta il festival che a Milano il Teatro Out Off gli dedica per il secondo anno consecutivo, in programma dal 3 ottobre e fino al 30 ottobre 2025 con il significativo titolo: Jan Fabre e Mino Bertoldo: 40 anni di poesia della resistenza, per celebrare i 40 di amicizia e sodalizio artistico tra il direttore del teatro e il visionario autore. Si erano conoscinui nel 1985. L’Out Off (oggi in via Mac Mahon) era in una cantina in viale Montesanto, dove è passata davvero “la storia” della sperimentazioni delle arti visive. Bertoldo, già allora cacciatore di talenti visionari, lo aveva invitato alla rassegna “Sussurri o grida” con Il potere della follia teatrale. Quell’incontro scatenò una complicità destinata a durare.

La poésie de la resistance
Una seconda edizione, con due debutti mondiali. La poésie de la résistance, scritto da Jan Fabre nel 2024, con la drammaturgia di Miet Martens con Annabelle Chambon e Cédric Charron, due tra i performer più rappresentativi della “famiglia Fabre”. Spettacolo in francese, con sopratitoli in italiano. Sulla scia di diverse suggestioni poetiche e letterarie, come il pamphlet Indignez-vous! di Stéphane Hessel e il componimento Liberté di Paul Eluard, (1895-1952). Un urgente rivendicazione della libertà di creare, un grido di resistenza contro le forme di oppressione che per Fabre uccidono l’arte. Una potente e quanto mai attuale riflessione sul valore dirompente che l’arte ha. Come ha spiegato lo stesso Jan Fabre, “al di là dei gravissimi conflitti che insanguinano il pianeta, siamo vittime di violenza. Una violenza silenziosa, subdola, latente, che, nascondendosi in un’autodeterminazione di facciata, in fallaci concessioni e messaggi subliminali, giorno dopo giorno mette in pericolo la nostra libertà. Perché si tratta di una violenza culturale. Senza rendercene conto viviamo in un sistema pressoché dittatoriale, dominato da un’atmosfera che genera paura, sensazione che spesso proviamo senza esserne realmente consapevoli e che cerco di restituire nei miei spettacoli”.

Una scena vuota occupata solo da palloncini bianchi trattenuti da esili fili (come metafora di schiere ordinate e disciplinate, di schiere di uomini in armi alle quali rispondere con la résistance?). Sul palco nero si stagliano sullo sfondo di profilo, uno da destra e una da sinistra, emergendo dal buio, un uomo e una donna. Procedono lentamente l’una verso l’altra, in dialogo con luci dai chiaroscuri che li scolpiscono come statue. Lei indossa gonna, giacca e cravatta stretta al collo su una camicia bianca e le décolleté nere con tacchi a spillo (che rendono ancora più difficili le cadute continue e le storte causate dall’impatto dei proiettili sul suo corpo). Lui è completamente nudo, colpito a morte, ricoperto di sangue fino agli angoli della bocca (in esplicito parallelismo con i più riusciti Ecce Homo della storia dell’arte). Si qualificano come membri di un movimento di resistenza artistica, che lotta contro ogni forma di violenza censoria e di oppressione e manipolazione culturale, che provano a limitare la creazione artistica. I cavalieri della disperazione della brigata teatrale. Vengono continuamente “giustiziati” da revolver e mitragliatrici, cadono, ma si rialzano sempre. E seguono ogni volta altri colpi, di altre armi. ll basso continuo del corno di Gustav Koenigs (registrato) che fa da lamento funebre si alterna a suoni di sirene che avvertono di imminenti bombardamenti. Nella scena che si tinge di rosso sangue
ll corpo-voce di entrambi vidi ritmo, pause, respiro, immobilità. I nomi, la descrizione, la potenza delle armi, misure e caratteristiche dei proiettili vengono elencati da Chambon e Charron come una macabra litania: una Smith & Wessons 500, una 44 Magnum, una 9 mm Parabellum, una Colt Python, una Sturmgewehr 44, un fucile 22 Long Rifle, un Kalachnikov automatico AKM. Ironizzano sui propri corpi ridotti a brandelli dalla pioggia di fuoco.
E il cammino dei poeti-performer è destinato a non arrestarsi perché su ogni parte del corpo, sulle “piante dei […] piedi pensanti/sulle dita dei piedi danzanti”, sui “talloni vulnerabili”, sulle “articolazioni più complesse, le ginocchia”, sulle “natiche attraenti e sensuali”, sulle “labbra fragili e piene d’amore”, sui “cervelli che controllano ogni sogno/e regolano ogni incubo”, e sulle “anime che ci fanno danzare dopo la morte”, “i guerrieri della bellezza/sempre fedeli/alla disobbedienza artistica e sovversiva” tatuano la parola liberté.
Chamon si ferma di fronte a noi con il seno scoperto come una declinazione contemporanea della Libertà che guidò il popolo durante un’altra stagione di scontri violenti, quella delle Tre gloriose Giornate parigine del 1830 nel dipinto di Eugène Delacroix.

I due performer-poeti si liberano infine dei palloncini: il rumore dello scoppio si confonde con quello delle mitragliatrici fino a perdersi nel leggendario attacco di Heroes di David Bowie: “Just for one day / we can be heroes…” e che li incita a resistere. I due performer-poeti si liberano infine dei palloncini: il rumore dello scoppio si confonde con quello delle mitragliatrici fino a perdersi nel leggendario attacco di Heroes di David Bowie. Del pamphlet di Husserl, Fabre ingloba, senza modificarlo, l’affermazione finale: Creare è resistere, resistere è creare. Lanciando un appello alla generazione piu giovane. È un passaggio del testimone nelle mani dei giovani. Una esortazione a creare, a indignarsi, a resistere, a erodere dittature e censure, a sognare, danzare, parlare e amare, anche se i proiettili continuano ad arrivare. La libertà è un sentimento vitale che dà senso alla vita stessa, come dichiarato nel celebre verso finale della poesia di Paul Eluard Io sono nato per conoscerti, capace di fiorire anche nelle circostanze più oscure. Tuttavia, il senso stesso dello spettacolo lascia sottendere un interrogativo: che ruolo ha la provocazione nell’arte contemporanea? Può davvero definirsi resistente, capace di creare disagio e stimolare una riflessione profonda e critica a modelli predefiniti, omologazione di pensiero, liberando l’immaginazione da ciò che è già dato e rendendo possibile un futuro inaspettato, liberando l’immaginazione da ciò che è già dato e rendendo possibile un futuro inaspettato? Oppure è semplicemente uno stratagemma per attirare l’attenzione del pubblico, svuotata di significato, piegata alle leggi del mercato, all’impatto sensazionalistico, che garantisce visibilità e successo e fa lievitare il valore delle opere, senza mettere in discussione i modelli dominanti? Le questioni che si aprono sono complesse e stratificate. Il dubbio appare quantomeno inevitabile.

Una tribù, ecco quello che sono
La seconda prima mondiale, Una tribù, ecco quello che sono è la prospettiva poetica di Jan Fabre sul lavoro di Antonin Artaud (1896-1948), il “fondatore” del Théâtre de la Cruauté (come è risaputo, e come precisa lo stesso Artaud, la crudeltà artaudiana non ha nulla a che vedere con il dolore infinito o con la tortura, crudeltà significa rigore, applicazione e determinazione irreversibile, assoluta, che ha lo scopo di sondare la nostra vitalità interna, primordiale). Ed è ispirato in particolare dall’Ombilic des Limbes (1925), un testo giovanile di Artaud che esplora temi come l’alienazione, la frammentazione dell’identità, la creazione di un linguaggio nuovo, il “linguaggio originario della carne”, perché le parole non riescono più ad esprimere il pensiero, lo bloccano, costringendolo in ambiti separati, in categorie che lo condannano all’erosione. La cultura detta legge alla vita invece di essere mezzo per comprenderla ed esercitarla. “Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge”, argomentava Artaud, in un brano della celebre raccolta di saggi Il teatro e il suo doppio ( 1938). Fabre raccoglie questa eredità, ritrova qui la sua ossessione più antica che ha caratterizzato tutto il suo lavoro artistico: l’impoverimento spirituale dell’Occidente, incapace di affrontare la natura selvaggia che lo abita. Su questa idea di azione estrema e spinta fino in fondo, Fabre ha costruito una performance incandescente, che attraversa il corpo e la voce della perfomrer Irene Urciuoli, (classe 1992, nata ad Avellino) che da anni collabora con la compagnia Troubleyn fondata ad Anversa da Fabre e fa parte del Jan Fabre Teaching Group che forma le nuove generazioni di artisti performer. Lady from Avellino, così la chiama affettuosamente Fabre. Ciò che è andato in scena all’Out Off non è uno spettacolo di trama, ma una successione di immagini, gesti e suoni: un teatro rituale e sensoriale che affonda le radici nella poetica del corpo, della ripetizione e della resistenza fisica. Il linguaggio scenico di Fabre è radicale: alterna lentezze a esplosioni fisiche, nel magnifico stile saettante di Atraud, a metà tra il comizio di un rivoltoso e l’incantesimo di uno stregone.
Fabre ci propone questo suo lavoro come fosse uno spettacolo rituale contemporaneo fra profezia e delirio, follia e purificazione, ricco di materiali simbolici (la cipolla) metamorfosi animalesche, sangue, nudità attorno alla bravura ipnotica di una talentuosa Irene Urcioli. Ancora una volta, come in Io sono un errore e Simona the gangster visti lo scorso anno al Teatro Out Off, al primo Festival dedicato a Fabre, Urcioli spicca per la radicalità della presenza. L’uso del corpo è “estremo”, portato al limite, capace di dare forma a una fisicità che è insieme forza, precisione spossessamento. Non è più la rappresentazione che gira intorno al testo ma al contrario prende le mosse dagli impulsi del corpo, dall’energia sprigionata dalla performer. C’è solo un corpo. Un corpo plastico il suo che va oltre i propri limiti, dis/organizzato. Un corpo che suda, resiste, offre se stesso come campo di battaglia poetico. Un corpo che pervade l’intera opera, con ripetizioni, variazioni, scarti continui e nuove ossessioni. In cui l’io si disgrega nel suo legarsi a una fisicità tormentata, andando oltre il tempo e lo spazio. Il testo di Fabre risuona come una confessione e un rito primordiale, lo spelare, oltre allo spiaccicare e mangiare, cipolle simboleggia una sorta di ingresso di percorso all’interno del proprio io frammentato , cercando la verità con rigore, ad ogni costo, in cui “la crudeltà” delle ripetizioni estreme dei gesti e delle parole diventano una sorta di rituale sacrificale per dirci che “la Rivoluzione sarà mentale o non sarà”

A luci accese, mentre il pubblico prende posto, Urciuoli è già in scena, è a terra, indossa un tailleur pantalone e tacchi alti, è circondata da una sterminato numero di sacchetti a rete contenenti cipolle, altri sacchetti con medesimo contenuto appesi al soffitto. Se ne sta in un angolo, rannicchiata a rammendare un velo color arancio e intona un canto, quasi un sussurro. Si alza, si siede ad una scrivania, prende una cipolla e comincia a spelarla con un coltello. “Non rinuncerò strato dopo strato a spellare la mia anima, fin quando non rimane che una calcificazione sferica di un solo pensiero”, dice la guerriera della bellezza, ripetutamente. Lascia colare un rivolo del trucco dalle cipolle che mangia e con cui si strofina viso e corpo. Da qui prende origine la performance che procede in una tensione estrema: fra profezia e delirio, follia e purificazione, tra mente e corpo, tra ragione e impulso, cultura e viscere. C’è qualcosa di animale in lei. Ma anche di straziantemente umano. Le membra iniziano a muoversi snodate, slegate, cascanti, come fossero pezzi di un altro corpo che non obbediscono allo stesso centro di controllo. I capelli sono scompigliati, fino a coprire il viso. Si toglie i capelli dal viso e se li appunta dietro le orecchie, fino alla nuca, liberando gli occhi da quella tenda che le aveva celato i connotati e confuso l’identità, intonando cantilene sillabanti, sussurrando dittonghi scontornati. Parole a brandelli o i vocalizzi laceranti. Le parole scivolano via in un coacervo linguistico ignoto. Nella ripetizione, che può sconfinare nel parossismo,di una singola parola o di una breve frase, al pari degli atti fisici a una serie di suoni disarticolati, una glossolalia fatta di sillabe “grrr, krrrrrraaa, aaaarrrgghh, iiiihaah“. Per “ripossedere” finalmente corpo e linguaggio. Il corpo senza organi e la lingua senza sintassi.

La mostra a Treviso
In concomitanza con il festival che gli dedica il Teatro Out Off di Milano, dal 24 settembre 2025 al 16 gennaio 2026, la 21Gallery (la galleria d’arte contemporanea fondata nel 2021 da Alessandro Benetton insieme a Davide Vanin, Massimiliano Mucciaccia) presenta nella sede di Treviso un nuovo corpus inedito di opere dell’artista belga: Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies. L’esposizione, curata da Dimitri Ozerkov, invita a riflettere sulla fragilità e sulla bellezza della condizione umana, ponendo l’accento sull’importanza della creatività nell’affrontare le sfide della vita.
“Come artista difendo la vulnerabilità di tutto ciò che è vivo”, ha dichiarato Fabre. “La mia speranza per il futuro? Un essere umano che esiste solo per pensare, per sognare“.
In questa doppia esposizione emerge l’uso sorprendente di materiali molto diversi. Da una parte, le sculture in marmo di Carrara, candido, puro, bianco, dall’altra disegni a matite colorate e tempere su Vantablack , la più nera versione esistente del nero, composto da milioni di nanotubi di carbonio. Un contrasto di grande impatto. Non solo cromatico. ll marmo rappresenta la tradizione e la permanenza (“Credo che non ci possa essere avanguardia senza tradizione”). il Vantablack, con la sua capacità di assorbire quasi tutta la luce visibile, simboleggia l’ignoto e l’infinito . Il Bianco e il Nero rappresentano gli opposti ,eppure trovano armonia in questa installazione. Lontano da ogni retorica, Fabre ci invita a liberare il pensiero e a guardare alle cose del mondo in modo diverso.

Il primo capitolo intitolato Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) potremmo definirlo un omaggio poetico ai sognatori, al cielo e i suoi misteri. Trova il suo fulcro nella monumentale scultura The Man Who Measures His Own Planet (2024) realizzata interamente in marmo di Carrara. Un uomo si erge su una scala, con le braccia tese e un metro tra le mani, come a voler misurare l’immensità del cielo. Un’immagine che suggerisce non solo il desiderio di conoscenza dell’essere umano, ma anche la voglia del “tuffo nell’ignoto” per esplorare mondi sconosciuti (“Come artista cerco quel salto nell’ignoto. Esplorare mondi sconosciuti, fuori o dentro noi stessi, è sempre stata un’inclinazione naturale, sin da quando ero ragazzo”).
Il corpo è modellato su quello di Fabre stesso, mentre il volto rimanda al fratello Emiel, che Fabre non ha mai conosciuto e al quale la mostra è dedicata, scomparso prematuramente all’età di tre anni, a causa di una malattia che nelle Fiandre è chiamata “Il canarino che canta troppo forte nell’orecchio”, una sorta di parotite. Il progetto rende omaggio a Robert Stroud, noto come “Birdman of Alcatraz”, un criminale che divenne un rinomato ornitologo. Stroud riuscì a farsi portare in cella centinaia di uccelli, creature che anche in cattività trovavano la forza di cantare e ispirare la sua mente. In Belgio, ha raccontato Fabre, ce ne erano tantissimi: i minatori li portavano con sé in miniera e nel momento in cui questi svenivano capivano che non c’era abbastanza ossigeno e ritornavano in superficie.

”Ecco, così, nel salone una distesa di marmorei canarini, appollaiati su cervelli umani, che sembrano interrogarsi sui meccanismi misteriosi della mente umana, raffigurati con dettagli in marmo realistici e simbolici, le piume, che evocano metafore di libertà e fragilità. Il canto (muto) degli uccelli che armonizza i suoni del cielo con l’eco dei pensieri umani, attraverso titoli evocativi come Thinking Outside the Cage, Sharing Secrets About the Neurons, e Measuring the Neurons. “La tecnologia ci permette molte cose, di esplorare lo spazio e altri pianeti, il paradosso è che la vera terra incognita resta dentro di noi, il nostro cervello da cui dipendono pensiero, sentimenti e movimento”. Ed è proprio il cervello, organo vitale e sede del pensiero, “la parte più sexy del corpo umano”, l’organo “misterioso” che Fabre, interessato anche alle neuoscienze, indaga da oltre vent’anni, esplorandolo attraverso sculture, disegni,e performance.

Il secondo capitolo, Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre), mescola il jazz e la creatività con la vita personale dell’artista. Al centro dell’installazione vi sono tre grandi sculture in marmo di Carrara che raffigurano un neonato di enormi dimensioni: il figlio di Fabre, Django, ritratto a cinque mesi e mezzo. Lo si vede in tre pose diverse: The Freefaller (of Art), mentre vola, The Peacemaker( of Art), seduto con il segno della pace, The Partisan (of Art), intento a gattonare. “Ho voluto che ogni posa fosse permeata dall’energia infantile, trasmettendo gioia e curiosità, qualità essenziali nel mio lavoro”.
Sulla schiena sono ripostate alcune partiture musicali di Django Reinhardt, un chitarrista belga gypsy, carissimo all’artista e al quale egli si è ispirato per il nome del figlio, soprannominato il fulmine a tre dita. Dopo l’incendio della roulotte in cui viveva che gli provocò l’atrofizzazione delle dita anulare e mignolo della mano sinistra, cicatrizzate insieme, Django sviluppò una tecnica chitarristica rivoluzionaria, riuscendo a vincere la menomazione. Le note di alcune sue celebri composizioni, Minor Swing, Nuages, Manoir de mes Rêves, tracciate sul corpo marmoreo del bambino, accompagnano, mute, una “sorta di jam session a quattro mani“, come avviene nel jazz, di sorprendenti disegni e a matite colorate su Vantablack, su fogli A4, realizzati da Fabre insime al figlio dove ho voluto rappresentare la geometria delle vibrazioni, quelle che avvengono nel nostro cervello.

Come dire, in questa mostra Fabre sembra dirci: la resistenza “che resiste”, dura come sasso contro l’oppressione, a volte invece si “riadatta” e si “trasforma”. Diventa resilienza: la capacità di trarre dalla sofferenza, dal dolore, da una menomazione, strade diverse attraverso la creatività e l’immaginazione. Come hanno fatto Robert Stroud e Django Reinhardt. E l’artista, un po’ come quei canarini che venivano usati nei cuniculi bui delle miniere di carbone come sistema d’allarme per avvertire i minatori del gas velenoso, vede sente e percepisce qualcosa prima degli altri.



