La nostra contributor Stefania Malerba continua a raccontarci il Phest di Monopoli. Trovate qui la prima parte.
La mia giornata all’insegna del PhEST e della scoperta è continuata a Palazzo Palmieri, dove sono concentrati i progetti della maggior parte degli artisti in mostra. Cercherò di tracciarne brevemente le linee, riprendendo la necessità, esposta già nelle intenzioni del festival, di portare in scena la voce delle «mille identità che compongono il mare in mezzo alle terre», da Monopoli, dentro il Mediterraneo, fino a Balcani, Medio Oriente, Africa e oltre, senza limiti di spazio o di tempo.
Il tema del sogno prende vita nel maestoso edificio di fine settecento nel centro storico del comune, in forme che, se me mi fosse stato chiesto, difficilmente sarei riuscita ad associare a questa parola.
Al piano terra, è la Warka Tower di Arturo Vittori a dare il benvenuto a visitatori e visitatrici, un progetto di architettura ispirato all’albero di Warka (gigantesco fico selvatico originario dell’Etiopia), una fonte d’acqua alternativa rivolta alle popolazioni rurali che hanno difficoltà a reperire acqua potabile. L’opera è imponente, realizzata con materiali naturali, biodegradabili e riciclabili al 100% (bambù, corde in fibra e bioplastica). Accanto a questa, la parete dedicata al progetto fotografico Terra Madre che Lisa Sorgini ha realizzato durante una residenza a Taranto, scatti di unione e sofferenza che mettono in scena la bellezza e la drammaticità che può rappresentare l’essere madri, “terra” di approdo e di partenza per un’altra vita.
Poco più in là, attraversando The lollipop trees, la foresta di disegni su alberi rossi che riporta i sogni dei bambini di Monopoli coinvolti nella residenza d’artista del fotografo Jan von Holleben, e superato il sentiero tracciato da Celestino Marco Cavalli, in Northern Stars, nell’estate del 2023, con pennellate di vernice fosforescente a illuminare il cammino di montagna che da Grimaldi di Ventimiglia porta a Menton in circa cinquanta minuti, tra Italia e Francia, si scende nella sala che ospita i forni. Ha luogo qui l’esposizione Terracielo di Davide Monaldi, una produzione scultorea in ceramica, avviata dal 2010, in cui l’artista combina esseri animati e inanimati, affollando la superficie e trasportando il pubblico in una dimensione onirica in cui lo spazio vuoto è un lontano ricordo. È così che appaiono gatti neri arrampicati su mobili e librerie, alieni, animali ibridi, insieme a carta da parati, citofoni, elastici, racchette da tennis, oggetti del quotidiano che acquistano nuovi e turbolenti significati. Si esce, si sale.
Al primo piano, ci si presenta davanti una bambina con lunghe trecce e due nuvoloni al posto degli occhi. È una delle immagini della serie Polly in Wonderland, realizzate da Polina Kostanda, artista ucraina che, utilizzando l’intelligenza artificiale, ha creato immagini in cui esseri umani, cibo e mondo animale si combinano, proponendo risultati che faranno riflettere, e discutere.
Accanto a lei, Soft Spot, la storia personale di Michalina Kacperak, la maggiore di quattro sorelle, figlia di padre alcolizzato, attualmente sobrio. Il progetto prende vita dal tentativo di razionalizzare un dolore infantile, una ferita inferta che sarà difficile da guarire, il ricordo di solitudine, mancanza di interesse, senso di colpa. In fotografia, Michalina riproduce la sua stanza, il suo intero mondo, unico posto in cui potersi rifugiare, insieme alle sue sorelle più piccole. I fili si intrecciano, i personaggi cambiano e mutano, le pareti sono imbrattate, i colori abbandonati sul tavolo, ma le porte rimangono chiuse, nonostante la confusione che circonda tutto il resto sia un costante grido di allarme.
Diversa, ma ancora legata a un ricordo d’infanzia, è la produzione di Ismail Ferdous, fotografo del Bangladesh che, con Sea Beach, torna su Cox’s Bazar Beach sul Golfo del Bengala, «la spiaggia naturale di acqua salata più lunga del mondo», dove trascorreva le vacanze con la sua famiglia. Oggi, la spiaggia è affollata da persone provenienti da ogni distretto, che parlano dialetti diversi e praticano religioni differenti. Chiunque fa visita a quel luogo, ormai mutato nella sua autenticità dagli effetti del consumismo, del lusso sfrenato e del cambiamento climatico.
Continuando ancora sullo stesso piano, il progetto di Matthias Jung riporta all’idea di sogno come speranza, seppure utopica, ma non sempre irrealizzabile, di arrivare a una condizione migliore, di agognare a qualcosa di diverso, di farsi trascinare ancora dalla voglia di provare desiderio e di averne diritto. In Esperanto, il fotografo tedesco racconta la storia, di poco precedente alla prima guerra mondiale, di una piccola regione del Belgio, che voleva affermarsi come stato indipendente e fare dell’Esperanto la sua lingua nazionale. Il risultato? «Oggi, proprio sul confine linguistico del Belgio, tra la parte francofona e quella fiamminga, si trova un’area speciale di lingua tedesca con un proprio governo e un’ampia autonomia», costituita quasi esclusivamente da piccole città e villaggi, con pochissima disoccupazione e una popolazione per lo più benestante. Alcuni sogni, alla fine, non sono incubi.
Procedendo al secondo piano, ecco che ci si trova immersi in un’atmosfera ben più intensa, non per argomenti – lo spessore dei temi affrontati fino a questo momento è evidente – ma per mezzi: brevi filmati, suoni, video ad accompagnare le rappresentazioni, una gabbia di metallo, il buio. È in questa atmosfera che si colloca l’opera di Valentina Vannicola. La Processione mistica, realizzata tra il 2022 e il 2023, è un’opera fotografica lunga oltre 7 metri, che si ispira alla processione descritta da Dante nel XXIX Canto del Purgatorio, continuando la ricerca cominciata oltre dieci anni prima con “L’Inferno”. In scena, nelle campagne della maremma laziale, a Tolfa, paese di origine dell’autrice, 49 figuranti appartenenti alla comunità locale. I volti seri, i simboli scelti, gli abiti imponenti, gli occhi freddi e lucidi, i rintocchi dei bastoni sul terreno contribuiscono a creare la sensazione di trovarsi all’interno di qualcosa da cui è difficile fuggire: un brivido, la paura che appartiene alla nostra stessa natura.
Progetto affascinante, quanto complesso, quello di César Dezfuli, Passengers, nato nell’agosto del 2016, quando il fotografo decise di immortalare tutte le persone salvate da un gommone alla deriva a 20 miglia nautiche al largo delle coste libiche. I passeggeri della barca erano 118. Dezfuli li fotografa pochi minuti dopo il salvataggio e ne segna i nomi, poiché non vadano più dimenticati. I ritratti sono stati mostrati al PhEST 2017. Per l’edizione 2024, il fotografo ha cercato di ritrovare quei 118 passeggeri per scoprire dove si trovano, cosa li ha spinti a intraprendere un viaggio pieno di difficoltà e come vivono adesso. Il sogno, per loro, continua o si è interrotto? Si trattava davvero di un sogno?
Bruce Eesly, in New Farmer, affronta, attraverso una raccolta di fotografie documentarie degli anni sessanta, quella che sembrerebbe una storia di evoluzione e successo: la manipolazione genetica delle colture che portò a raccolti più abbondanti e migliori. Ma è davvero così semplice? Il progetto pone dei dubbi: quanto la manipolazione della natura è stata funzionale alle nostre esigenze e per quanto questo ritmo imposto sarà sostenibile, per il mondo e per l’uomo? A svelarne le incongruenze è la sproporzione tra la piccolezza degli uomini rappresentati e l’enormità dei “prodotti”, che finiscono quasi per incombere su di noi, non permettendoci più una via di fuga.
Spostandosi, pur rimanendo nello stesso palazzo cittadino, si entra in una serie di progetti in cui, più che di uomini, si parla di storie che hanno cambiato un paese intero. È così che l’artista visivo iracheno Nariman Darbandi crea immagini e video 3D ispirati ai cliché del cinema occidentale in Desolated Dreams, giocando con luci, ombre e immagini ricorrenti e Pier Alfeo, in Lapse, indaga l’inquinamento acustico di origine antropica, causa di disagi e devastazioni negli ecosistemi marini, ricreando un ambiente tridimensionale e suggestivo.
Si rivolgono agli Stati Uniti d’America, invece, ma continuano a interrogare tutti noi occidentali, i progetti di Antone Dolezal, in Part of Fortune and Part of Spirit (“una parte di sorte, una parte di spirito”), in cui l’artista, attraverso fotografie documentarie e performative, scattate tra il Nevada e la California (dove è cresciuto), affronta il rapporto tra paesaggio e «creazione del mito americano» e di Richard Sharum (fotografo editoriale e documentarista), che racchiude in Of Thee I Sing – An American Series tre lavori: “Spina Americana”, sull’area geografica degli Stati Uniti, conosciuta come “fly-over zone”; “American Homicide” sulla violenza dilagante nella società statunitense e “American Avenue”, sulla povertà e la miseria dei senzatetto, e sulle ripercussioni su bambini e bambine.
A concludere la visita del secondo piano, o a darle inizio – dipende dal punto di partenza – il progetto del giovane pugliese Nico Palmisano. Dream il nome scelto, perché proprio da un sogno è partita la sua idea: riprodurre quei sogni che lo svegliavano quando era bambino e che meticolosamente appuntava su un piccolo diario. «In tutte le descrizioni, la parte più dettagliata era quelle delle ambientazioni» spiega Palmisano. «Volevo cercare le immagini, quelle che mi avevano accompagnato da bambino, ma non sapevo come dare loro vita, erano solo nella mia mente. Per ricostruire questi mondi astratti, ho pensato di ricreare le ambientazioni dei miei sogni attraverso l’intelligenza artificiale». Dopo, ha deciso di scattare con una Polaroid lo schermo del computer. Trasforma così in un oggetto concreto e tangibile il ricordo di una realtà immaginata e lontana negli anni, maneggiata e riprodotta per come la memoria lo permette, generando sensazioni di ambiguità e incertezza.
Uscita da Palazzo Palmieri, sopraffatta com’ero da immagini, rievocazioni, suoni, colori, bianco e nero, luci soffuse, voci e rumori, e dalla tensione che avevano scatenato in me, avevo quasi dimenticato di dover affrontare ancora una parte del percorso.