Il Palazzo del Banksy a Venezia? Parla Marco Nereo Rotelli: “Feste, artisti, fagiani al guinzaglio. E un giorno Keith Haring…”

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Sotto protezione speciale, con vigilanza armata 24 ore su 24. È la decisione presa dalla società di imprenditori padovani proprietaria del palazzo veneziano di Rio San Pantalon, sul quale campeggia il celebre Migrant Child di Banksy, che, in vista della Biennale che si aprirà tra poco più di un mese, è diventata sempre più meta turistica imprescindibile per chiunque passi per la Serenissima, con tanto di code sul ponte che la costeggia per vedere con i propri occhi il dipinto dello street artist di Bristol. Dipinto che, però, appare sempre più scolorito e deteriorato dal tempo, dall’umidità e dalla salsedine, tanto che, com’è noto, a breve dovrebbero iniziare i lavori di restauro della facciata, sollecitata dalla proprietà e fatta propria da Sgarbi nello scorso ottobre (quando era ancora sottosegretario alla Cultura), il quale, per finanziarla, ha trovato l’appoggio di Banca Ifis (qua e qua gli articoli nei quali ricostruivamo, primi nella stampa specializzata, l’intera vicenda).

Il Migrant Child di Banksy com’è oggi, deteriorato dal tempo e dall’umidità.

Il Migrant Child, dunque, che, per il suo titolo e per i significati che sottende – di inclusività, di emergenza umanitaria e ambientale, di accoglimento delle diversità –, potrebbe benissimo rappresentare una sorta di opera-simbolo della Biennale che aprirà i battenti in aprile (il titolo di questa edizione, diretta da Adriano Pedrosa, è infatti “Stranieri ovunque”, con riferimento non solo ai problemi delle migrazioni ma anche delle diversità di ogni genere), sarà messo sotto sorveglianza costante per non rischiare, com’è accaduto per molte opere di street art, di finire imbrattato o distrutto prima del restauro del palazzo. Palazzo che, va detto, vanta non solo un grande interesse storico-artistico (l’edificio è secentesco, messo sotto tutela dal Ministero, con decreto del dicembre 1959, perché “di interesse particolarmente importante”, grazie alle decorazioni sulle facciate, una “bifora architravata con poggiolo poco sporgente”, e “due monofore architravate di analoga fattura”), ma anche dal punto di vista della storia dei suoi abitanti.

In pochi sanno, infatti, che, fin dagli anni Settanta, quello che oggi in molti, a Venezia e non solo, vorrebbero far diventare una sorta di Padiglione off – cioè al di fuori delle sedi dei Giardini e dell’Arsenale – della Biennale d’arte (Palazzo Banksy? o Padiglione Banksy?), un tempo divenne rifugio e raccolta di artisti di varia e mutevole natura. A raccontarci la sua storia è Marco Nereo Rotelli, artista di origine veneziana da tempo trapiantato a Milano, il cui lavoro ha ottenuto molti e importanti riconoscimenti nazionali e internazionali: solo alla Biennale di Venezia è stato invitato per ben 9 volte, 10 con quella che aprirà quest’anno, dove è invitato come ospite d’onore nel Padiglione del Bangladesh, con un’installazione video NFT intitolata “Gondola aerospaziale” (realizzata in collaborazione con la Space Architect al MIT Valentina Sumini e con Pietro Grandi e Antonio Alfano, e con i versi poetici di Gemma Bracco e un omaggio a Rabindranath Tagore).

Marco Nereo Rotelli, in collaborazione con lo Space Architect Valentina Sumini, il Visual graphic Pietro Grandi
and Antonio Alfano. Gondola aerospaziale, 2024, NFT video installation and iron window frame, 120 x 75 cm.
Immagine generata IA da Valentina Sumini © Marco Nereo Rotelli, Courtesy ever in art

In quel palazzo, Rotelli ci visse per diversi anni, da giovane. Erano i primi anni Settanta, e, in mezzo a una vera e propria tribù artistica variegata, vitale e dinamica, per diversi anni il palazzo diventò una specie di “rifugio” artistico, poetico, letterario per molti asrtisti di passaggio a Venezia. Una sorte di comune delle arti, che ben si interfaccia con l’attuale destinazione “artistica” del Palazzo, oggi conosciuto sostanzialmente come il “Palazzo di Banksy”, ma ai tempi dotato di una fisionomia propria e, per alcuni anni, anche un nome, un po’ pazzo e bizzarro come gli inquilini che lo abitavano: San Pantalon Number One.

In questa intervista esclusiva, Marco Nereo Rotelli ci racconta le vicende che hanno caratterizzato “Palazzo Banksy” prima che lo street artist ci mettesse sopra il suo sigillo.

Allora, Marco, quando hai abitato in quello che oggi viene conosciuto come “il Palazzo di Banksy”?

Ci sono approdato che avevo 19 anni, e ci ho abitato per quasi vent’anni, dal 1978 in avanti. È la prima casa in cui sono andato a vivere da solo, uscito dalla casa di famiglia, ed è stato anche il mio primo studio di artista.

A quel tempo facevi già l’artista?

Io mi sono laureato in architettura , ma nell’intraprendere la strada dell’arte mi hanno aiutato tanti personaggi di varia estrazione: da filosofi, come Massimo Cacciari, di cui ero e sono tutt’ora amico (e che mi curò assieme a Franco Rella la mia prima mostra), scrittori come Daniele Del Giudice e Vincenzo Consolo, poi collezionisti, critici, poeti… era una situazione molto viva. Io ero chiamato o meglio soprannominato ‘El pitor‘ e fu Cacciari a parlare con Emilio Vedova che mi accettò nella sua aula. Era ii 1982, dipingevo sempre con un approccio molto aperto, di collaborazione e trasversalità tra le arti, tanto che da sempre le mie mostre prevedono forme di collaborazione con poeti, filosofi e musicisti.

Marco Nereo Rotelli con Paolo Sandano, in arte Olinsky, nell’altana del palazzo di San Pantalon.

E il centro nevralgico di tutto questo era il palazzo che oggi ospita il Migrant Child di Banksy?

Sì, certo, era quel palazzo, che già all’epoca aveva un fascino incredibile. Il proprietario era un vecchio nobiluomo, il marchese Luigi Duran de la Penne, ex ammiraglio della Marina, che a suo tempo fu famoso per aver affondato, nel dicembre del 1941, nel porto di Alessandria d’Egitto, la nave da guerra inglese Valiant, nella storica missione dove furono impiegati i cosiddetti “maiali”, i siluri del sommergibile Scirè. In ogni caso io ho sempre cercato di imparare da tutti. Il generale mi disse che prima di entrare nel porto si rivolse al suo secondo e gli chiede ‘avete paura?‘, e l’altro: ”sì’, e la risposta del generale fu: ‘io non l’ho mai dimenticata‘, ‘anche io’, ‘allora andiamo‘. Bisogna sempre aver coraggio insomma. Tornando a San Pantalon Number one, come lo chiamavano noi, era un luogo stranissimo, pieno di gente bizzarra, un po’ sopra le righe. Tanto per farti capire: al piano terra, proprio dove ora campeggia il dipinto di Banksy, si affacciava l’appartamento di uno stilista, poi trasferitosi a Parigi, che nella sua eccentricità amava andare in giro con un fagiano al guinzaglio…

Un fagiano al guinzaglio? Per le calli di Venezia?

Sì, proprio così.

La Marc hesa Casati disegnata da Ertè.

Beh, in perfetto stile Belle Époque veneziana, direi, visto che proprio da queste parti, a Palazzo Venier dei Leoni, all’inizio del Novecento, viveva anche la Marchesa Casati, che invece alle feste e per le calli di Venezia andava in giro con un leopardo al guinzaglio…

Sì, era allora un palazzo così, abitato da giovani che sognavano, artisti, intellettuali, gente un po’ sopra le righe. Io abitavo in una mansarda che prendeva tutto l’ultimo piano, e subito sopra c’era un’altana meravigliosa (un terrazzo coperto “con parapetto in ferro battuto” come documenta il decreto del Ministero sul palazzo, ndr), dove facevamo sempre delle feste incredibili, ma anche semplicemente delle riunioni culturali e conviviali, delle grandi bevute e mangiate, nel corso delle quali si chiacchierava, si parlava d’arte, si guardavano i quadri… un luogo molto poetico, in cui vivevamo perennemente come in un’atmosfera magica, incantata, dormivamo sentendo sempre il suono dell’acqua… il rumore del vaporetto che passava rimane la colonna sonora di un periodo molto bello che mi è rimasto nell’anima.

E da lì sono passati un po’ tutti?

Esatto: un giorno veniva Achille Bonito Oliva, un’altra volta Bubi Durini, marito di Lucrezia De Domizio, che fu la prima sponsor di Beuys in Italia, un’altra ancora Filiberto Menna, Marisa Vescovo, Claudio Cerritelli, oppure Marco Meneguzzo… o anche scrittori come Daniele Del Giudice, che nella postfazione del libro Il museo di Rheims, da me illustrato, descrisse l’atmosfera che si respirava in quella casa, i discorsi che vi si facevano, il modo di parlare di pittura, di spostare quadri e ragionarci intorno – “lo spettacolare equilibrio tra ordine e invenzione” che si trovava non solo nei miei quadri di allora, ma anche nel mio e nel nostro modo di parlare di pittura: “Credo che i pittori abbiano un modo tutto loro di parlare di quadri”, scriveva, “diverso dagli altri; credo di esserne stato contagiato, e quando sono da Rotelli nel suo studio finisco per parlare come lui”.

E c’erano anche molti artisti, immagino.

Come no! Molti si fermavano anche per diverso tempo, per esempio ci fu Getulio Alviani che rimase da me per ben tre mesi, e stava sempre al telefono, e poi se ne andò senza neppure pagare la bolletta!

Scrittori, filosofi, critici: tutti che passavano dal tuo studio, dal palazzo che oggi è identificato con Banksy.

Già, e una volta arrivò anche Keith Haring.

Keith Haring alla Biennale di Venezia nel 1984.

Keith Haring?

Sì, era a Venezia perché era stato invitato alla Biennale, eravamo nel 1984. Un giorno arrivò nel palazzo di Rio San Pantalon e per un po’ facemmo gruppo, lui era più giovane di me di un paio d’anni, all’epoca ne aveva 26, e insomma con altri amici giravamo Venezia la sera, facevamo le nostre scorribande notturne, perché non bisogna pensare che l’atmosfera che si respirava fosse troppo seriosa, insomma che fossimo sempre lì a parlar d’arte e di filosofia…

Quindi c’era anche un’atmosfera di cazzeggio, un po’ goliardica?

Ma sì, pensa che avevamo fatto anche una squadra di calcio, la chiamammo appunto San Pantalon Number One, e avevamo pure le nostre majorettes… tra le altre c’era Mila, la sorella di Luca Vialli, c’era Anna, e Paola, che poi sposai…

Vincevate?

No no, se è per quello perdevamo sempre! Il nostro capitano era Fulvio Valli detto Wally, che era pure bravo, il disastro nascente, calcisticamente parlando, ero proprio io! Ma non potevano togliermi… non li avrei più invitati alle feste!

Marco Nereo Rotelli alla Biennale con Bunker poetico, 2011.

E come finì la tua e la vostra avventura in quel palazzo?

Come ho detto io poi andai per qualche tempo a lavorare come assistente di Vedova… a quel tempo facevo questi quadri in una sorta di informale lirico (l’uso della scrittura e delle parole nei quadri di Rotelli arrivò solo negli anni Novanta, ndr), usando tantissima trementina per fare snervare il colore fino a farlo diventare luce. E Vedova per sfottermi mi chiamava con una gran voce: “Tiepolooo“! Continuai ad abitare in San Pantalon, ma piano piano cominciai a girare di più, a frequentare altri posti… come tutte le cose, anche quell’esperienza arrivò al termine. E a metà degli anni Novanta cambiai casa.

Hai più rivisto il palazzo?

Ci sono passato davanti tante volte, ma col tempo si è andata sempre più deteriorando. Un giorno passai da Gastone, l’edicolante in campo San Pantalon e gli chiesi: ‘Che ne è della casa?’. E lui, con una bellissima espressione molto veneziana, mi rispose: “Tasi, tasi, x’è le pantegane che se ciava l colombi”, fine della festa insomma… almeno la nostra.

E ora, grazie a Banksy, verrà finalmente restaurato. Viva Banksy allora, e viva l’arte!

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