La Cecla “a Malta il decolonialismo non è una tematica ma una realtà”

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Con la decolonizzazione al centro della ricerca di un nuovo standard museale in Occidente, l’antropologo Franco La Cecla, palermitano ma giustamente autoproclamatosi ubiquo in uno dei suoi numerosi libri, è ormai richiestissimo anche dal mondo dell’arte. Fra una missione in America Latina e un’altra in India, Franco è da mesi mobilitato a Malta come consulente scientifico dove si prepara la prima biennale d’arte dell’isola che precede la Biennale di Venezia.

La Biennale di Malta inaugura l’11 marzo e anticipa quella di Venezia di un mese. 

La Biennale di Malta è una biennale nuova a differenza di quella di Venezia, e quindi ha tutta la vivacità di un luogo che è fuori dai soliti giochi italiani, le logiche delle cordate e delle appartenenze. È curata da un team giovanissimo, di cui Sofia Baldi Pighi era la mia studentessa del Naba. Insieme abbiamo lavorato a plasmare l’immaginario di questa biennale. E poi Malta è un’isola a differenza di Venezia, è tutto molto concentrato, qui gli artisti famosi ed emergenti sono costretti ad incontrarsi, ad andare a cena o al mare insieme. La convivialità, oltre all’ambientalismo e al decolonialismo, non sono delle tematiche qui bensì una realtà. 

Cosa pensi della risposta della Biennale di Venezia alla petizione che chiede di annullare il Padiglione Israeliano?

Credo che in una logica di decolonizzazione le pratiche israeliane, come ben evidenziato dalla denuncia del Sud Africa, sono da inquadrarsi in una strettissima logica colonialista.

Fra i partecipanti, ci sono artisti invitati a entrambe le biennali. In che modo la loro partecipazione sarà più efficiente a Malta che a Venezia?

Probabilmente ci sono meno risorse, la Biennale di Malta non ha sponsor privati, ma questo potrebbe rivelarsi un vantaggio.

Quali sono le tematiche affrontate da Malta che competono con Venezia?

Ci sono artisti molto “militanti” come Tania Bruguera o Pedro Reyes, Teresa Antignani, Andreco, Adama Delphine Fauwndu che lavora sul cambiamento climatico, ma anche artisti la cui ricerca si sposta verso l’arte indigena. Artisti maltesi come Austin Camilleri che riflettono sulla decolonizzazione. È diventata una tendenza generale e una narrativa molto forte quella di raccontare le situazioni locali in un’ottica che privilegia la relazione con le risorse. In confronto, il discorso post-coloniale di Pedrosa mi sembra all’acqua di rose. Nei fatti in Italia non si è andato oltre un generico approccio retorico post-colonial, senza entrare nel merito di cosa sta accadendo ai popoli indigeni nel mondo. A Venezia ci saranno sì artisti Maori, ma quanto sarà detto? Sono stato in Nuova Zelanda e in America Latina, è un problema grande quello della restituzione. Non si tratta di opere o reperti, chiedono che gli vengano restituiti i loro morti! Morti e terre trafugati più di cento anni fa. Le terre e gli antenati sono la stessa cosa per gli indigeni.

Cosa dovremmo aspettarci dunque da una biennale che si proclama post-coloniale secondo te? Definisci gli obiettivi e l’estetica di una mostra indigenista e decoloniale.

Intanto bisogna superare la logica nazionale e poi decidere cosa sia davvero arte oggi, una questione aperta negli anni ’80 dalla mostra “Les magiciens de la Terre” di Jean Hubert Martin e mai veramente ripresa. C’è dentro l’idea di cura del mondo, di artigianato, un’arte del vivere oltre che del fare. Quindi una mostra oggi che si proclama decoloniale deve seguire secondo me queste tre regole di base: uno, che venga gestita dai popoli indigeni; due, che racconti la storia coloniale e decoloniale; e tre, che coinvolga artisti indigeni contemporanei.

Quali primati sei riuscito a conferire alla biennale di Malta grazie alla tua consulenza?

Abbiamo invitato il grande antropologo Michel Taussig a tenere due conferenze. Una, sulle isole come prigioni e un’altra sull’immaginazione infantile. Poi ci sarà un confronto tra Massimo Montanari, grande storico dell’alimentazione, e l’Archivio dei Pirati diretto qui da Liam Gauci. E ho convinto Virgilio Sieni a venire a Malta per preparare una coreografia in situ nel magnifico parco archeologico di Hagar Qim. Penso che nell’insieme la mia presenza sia stato di stimolo rispetto a una visione meno compartimentata del mondo dell’arte contemporanea.

È una biennale voluta dal governo maltese?

Sì, è una Biennale statale finanziata interamente con soldi pubblici, senza sponsor. Probabilmente è stata voluta per rifarsi un’immagine dopo l’omicidio della giornalista Daphne Caruana che denunciava la corruzione, e dopo le dimissioni del Primo Ministro che ne sono seguite. Malta in modo molto simile a certe regioni italiane, Sicilia in testa, è molto esposta al riciclaggio e alle pressioni mafiose.

Quali sono i punti di forza e i punti deboli di una biennale a Malta?

Ha l’appeal di una Biennale mediterranea, e quindi tutto il potenziale di una mostra organizzata al Sud. La Valletta è il porto più importante del Mediterraneo con purtroppo ancora troppi legami con la Mafia. Malta ha una logica feudale, è una Svizzera terrona. Ma è anche molto internazionale, a cominciare dalla sua lingua derivata dall’arabo, con influenze dall’italiano e dall’inglese. Molti artisti, come molti nati qui, hanno studiato nell’ex colonia britannica. Ci sono anche molti Russi, Cinesi, molti immigrati dai paesi dell’ex Commowealth che hanno acquistato la cittadinanza europea. L’isola è ricchissima, tante banche si sono installate qui perché c’è meno controllo ed è diventata un paradiso fiscale, al centro dello scandalo dei Panama Papers.

Hai da poco curato una mostra all’Istituto di Cultura Italiano a New Dehli in India. Quanto hai potuto mettere in pratica della tua tesi sull’arte antropologizzata? 

Il direttore Andrea Anastasio mi ha invitato a curare insieme una mostra su Italo Calvino, “Parallel Cities”. Ho scelto sei artisti italiani e sei artisti indiani. Tra questi, uno è il nonno del mio sarto indiano che alla morte della moglie ha deciso di diventare lei, indossandone i vestiti e i gioielli in una logica in un cui ribaltava la sua vedovanza. Abbiamo esposto gli abiti che indossava e le foto che ne raccontano la storia. In questa mostra decidiamo che lui è un artista esattamente quanto gli altri artisti esposti. 

Questo potrebbe essere il tuo manifesto sull’ arte antropologista?

Negli ultimi 50 anni i casi di artisti diventati antropologi e viceversa sono diventati numerosissimi, come racconto nel mio libro Scambiarsi le Arti scritto con Anna Castelli. Il mondo dell’arte si è rivolto ai fatti della vita, alle forme di vita, nel senso di Ludwig Wittgenstein. Oggi c’è una maggiore attenzione ai campi confinanti, si sono mescolati. Gli artisti adottano tecniche dell’antropologia, il fieldwork, l’osservazione partecipante. C’è un approccio generale molto più attento alle storie reali, della gente, nel quotidiano. 

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