Nicola Di Caprio, una vita tra arte e musica

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Nicola Di Caprio è, per i nostri lettori, prima di tutto uno dei collaboratori fissi di Artuu. Con le sue GIF, infatti (che settimanalmente compaiono sulla home del nostro sito “commentando”, a loro modo, le novità artistiche della settimana), Di Caprio ha creato letteralmente un nuovo genere d’arte, che utilizza una forma nuova e ipercontemporanea di video – utilizzatissimo nel mondo dei social ma ancora pochissimo utilizzato come media artistico –, mescolando immagini, parole, colori e segni in un loop continuo e inarrestabile. Con le sue GIF, Di Caprio ha anche vinto premi e riconoscimenti importanti, non solo in Italia.

Ma Nicola Di Caprio è prima di tutto un artista visivo, un musicista e un grande appassionato di musica. In tutti i suoi lavori, infatti, ritroviamo la sua passione per la musica, siano essi assemblaggi, foto, installazioni o performance. Proprio il titolo di una serie di performance (fatte a Parigi, Vienna, Milano, Positano) dice tutto di lui “Il bambino cosmico che risiede in me sorride beffardo, tra suoni e rumori con percussioni, oggetti trovati, voce e giocattoli”.

Second Skin

Nelle sue ricerche anche condotte sul filo dell’indagine sociologica, c’è sempre una particolare attenzione per l’aspetto grafico, con sorprendenti accostamenti e mix di citazioni a Musica, Cinema e Storia dell’Arte. Prima di essere artista visivo, Di Caprio è stato ed è ancora un musicista, il suo strumento è la batteria, l’ha suonata anche con gli Avion Travel e l’ha anche utilizzata in numerose performance. È riuscito a fondere insieme queste sue due passioni l’arte e il rock and roll. L’abbiamo incontrato nel suo studio milanese, dove in bella mostra ci sono, appunto, oltre ai suoi lavori, diversi strumenti musicali. 

Gli strumenti musicali sono delle straordinarie forme estetiche al servizio di una funzione: il suono. Come e quando hai pensato di fare sculture con strumenti e oggetti musicali?

In realtà lo strumento musicale in sé è di fatto una scultura, se si pensa ad esempio a un tamburo, è fatto in modo che abbia la funzione di risuonare, però è di per sé anche una figura plastica e quindi utilizzarlo come elemento di un’istallazione rimane facile. Pensiamo anche ad un sassofono, una tromba che sembrano quasi dei meccanismi futuristici, mi viene in mente l’architettura del centro Pompidou. Questa è stata la cosa che mi ha indotto ad usarli solo ed esclusivamente per un fattore estetico ma che inevitabilmente rimanda ai propri ricordi e alle proprie passioni. Avendo questa doppia natura, parallela di musicista, di batterista ma anche di ascoltatore, questa è stata la spinta che mi ha indotto a mettere insieme dei mondi che mi sono cari e che mi caratterizzano anche come artista visivo. La bellezza intrinseca degli strumenti la faccio mia partendo dal fatto che appunto sono degli strumenti che nascono per avere una funzione e utilizzandoli come oggetti d’arte tolgo loro la funzione pratica ed assurgono ad una funzione spirituale che è quella artistica.

Fac the Face

Segui un ritmo per farti ispirare quando componi le tue opere? 

L’ispirazione per un artista è un’invenzione, ma per qualunque tipo di artista. L’artista è in continua ricerca, pensa continuamente al suo mondo e cerca il modo di esprimerlo, più che ispirazione io la chiamo Epifania, vedi qualcosa che ti colpisce e ti stimola per un progetto che poi diventerà arte. Sei continuamente in un meccanismo di pensiero creativo, Conrad diceva “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo dalla finestra io sto lavorando?”, perché tutto ciò che ci circonda è fonte di idee; quindi, non c’è un’ispirazione in senso stretto.  Quando faccio lavori su carta, veloci e terapeutici, in quel caso riconosco di avere un approccio più riferito al mondo dell’improvvisazione musicale.

Che musica ascolti, quando crei?

Io sono un grande ascoltatore di musica, di tutti i generi e più sono strani più mi piacciono, non riesco più ad ascoltare la musica pop, soprattutto quella Italiana, la trovo atroce. Mi piace molto la musica sperimentale, sia di stampo afroamericano che quello europeo, il jazz, il free-jazz, ma ascolto anche la musica classica contemporanea. Avendo la batteria in studio, poi, spesso tra un tratto, una pennellata o un accostamento di oggetti, ci salto su e la suono a volte anche solo per pochissimi secondi. L’atto del suonare è di grande concentrazione.

Nelle tue opere spesso si crea un rapporto tra scrittura e immagine, perché? 

Il gusto del segno deriva dalla mia passione e dalla pratica come graphic designer. C’è una bellezza intrinseca nell’accostare dei caratteri di stampa e abbinarli a delle immagini. Spesso sono piccole frasi che mi giungono da una canzone o casuali accostamenti di parole che devono dialogare con un’immagine o dei segni. La funzione è prevalentemente estetica, ma il valore della parola anche solo come forma, a parte il significato, è una cosa che mi interessa molto. Lascio ad altri meglio dotati di me di usare le parole per dare senso e fare filosofia.

La tua passione per la grafica l’hai espressa anche con CD oversize, sono dorsi di Cd “esplosi” dipinti ad acrilico. Poesia visiva in salsa popfunkymetal e rock, sempre con un piglio ironico e giocoso che è una sigla del tuo stile. In un tuo lavoro recente Face the Face, hai di nuovo mescolato le tue passioni, la musica e l’arte.

Ho avuto quest’epifania, forse non originalissima, ma io l’ho resa organica, ho cominciato a cercare in giro le copertine di album di qualunque genere, che potessero avere una proporzione con un corpo più o meno 1:1, a volte sono meno, altre volte più, a volte anche grottesche. Ho dato un corpo alle facce di queste copertine. È stato quindi un lavoro prima di tutto di recupero di album, andando in giro per collezionisti, perché sono poche le copertine con volti in primo piano. Il lavoro di raccolta è stato lungo, e poi ho fatto le foto. Ho associato quindi alle facce note degli artisti corpi anonimi di persone qualunque o anche amici, che non fossero, però, dei modelli ma idealmente dei reali ascoltatori. E anche le foto sono casual non gli ho voluto dare quella perfezione da “moda”, c’è una sorta di sottile linea punk, anarchica. All’interno del libro troviamo una velina con il foro del 45 giri e una del 33 giri, quindi se vuoi anche una parte concettuale.  Un altro lavoro che ho fatto sempre con questa contaminazione con la musica è quello racchiuso nel libro Second Skin, ho fotografato persone che incontravo casualmente per strada che indossavano magliette che parlassero di musica, qualsiasi tipo di musica. Ho fotografato una realtà, gente che ama la musica senza confini.

Collage, assemblaggi, montaggi e stratificazioni di oggetti e materiali diversi, in particolare i nastri magnetici e le musicassette o vinili, caratterizzano la tua ricerca tra decostruzione e ricostruzione, perché?

Mi piace sperimentare, a volte l’artista è un po’ schiavo del mercato, io cerco di non esserlo, faccio poche mostre e per me la mostra è un’occasione per proporre un lavoro nuovo inedito che possa stupire prima di tutto me. Nel mio lavoro c’è molto re-made nel senso che prendo degli oggetti e li assemblo, li costruisco, li decostruisco. Cito sempre una frase di Frank Zappa in cui mi ritrovo, quando qualcuno gli diceva: ma questa musica che fai è così strana, lui rispondeva con questa frase che, secondo me, dice tutto: “Anything Anytime Anyplace For No Reason At All” (Qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, ovunque e senza alcun motivo). Ogni volta che un artista fa una scelta c’è questa convinzione che tutto nasca da un pensiero da una filosofia, che hai fatto studi e poi arrivi a fare l’opera; invece, Zappa che era un fine intellettuale, diceva io faccio le cose perché mi piace farle. La filosofia, il pensiero sono già dentro a quello che fai, perché non si è un contenitore vuoto, si parte da un pieno che mette insieme le cose, le pensa. Non ti nascondo che in me c’è però una specie di bastian contrario, cioè quando io ho un progetto e lo penso in una certa maniera, mentre lo faccio mi dico: sto seguendo troppo uno schema, e allora comincio a prendere vie laterali, faccio sedimentare il tutto e aspetto che mi dica il lavoro quando è finito, cioè finché non trovo l’idea che lo chiude e che mi soddisfa.

MO è un’espressione tipicamente campana e meridionale con la quale si è soliti indicare l’attimo in cui avviene un determinato evento: adesso, in questo preciso momento, proprio ora. Di recente hai ideato una personale con questo titolo a Saviano/Napoli nello spazio Sabato Angiero Arte. 

Di solito è lo spazio che mi aiuta a decidere cosa esporre, in questo caso invece mentre parlavo di quando fare l’esposizione ho pensato Mo, ecco l’epifania di cui parlavamo, intorno al titolo, che poi è un suono, ho costruito la mostra. Ho invitato a fare una performance, quasi teatrale, Pietro Condorelli uno dei maggiori chitarristi Jazz in Italia. Ho lavorato sulla memoria, con i “contranomi” o soprannomi, ho ricordato tutti gli amici con i loro contranomi, accompagnato da Pietro alla chitarra. Tornavo a fare una personale dopo molti anni nella mia terra di origine la Campania, ho abitato a Parigi, negli Stati Uniti, ho avuto una vita da girovago, ma non volevo fare il ‘mericano volevo fare una cosa che fosse vicina alle mie radici. Avevo esposto anche una statua africana con sulla testa una candela rossa accesa e circondata da pomodori freschi, che sono un po’ il simbolo dello sfruttamento dei braccianti africani che lavorano alla raccolta dei pomodori nel casertano e nel sud Italia.

Photo Courtesy: Galleria Pack, Milano, Vanessa Buia Gallery, NYC, Galleria Sabato Angiero – Saviano Napoli, Kaos Edizioni – Milano, Artshow Edizioni – Milano,

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