Perenne inattualità della pittura

Getting your Trinity Audio player ready...

di Enrico Lombardi

In occasione del dibattito apertosi sulla pittura italiana a seguito della mostra “Pittura italiana oggi” alla Triennale di Milano, abbiamo chiesto a Enrico Lombardi, pittore che ha sempre riflettuto, anche con testi teorici, sullo statuto della pittura, un intervento, che qui pubblichiamo.

Enrico Lombardi, Foto Matilde Petretti

Sembra proprio che sia giunto il momento di riaprire la discussione su “cosa sia la pittura”, ovvero su cosa possa essere la pittura oggi, dopo i tanti e ripetuti tentativi di riemergere, come linguaggio attuale, ogni volta che l’asfalto concettuale mostrava qualche crepa. Comincerei la mia riflessione con una frase del grande fenomenologo francese M. Merleau-Ponty: “La pittura… non celebra mai altro enigma che quello della visibilità.” Tanto per circoscrivere esteticamente il campo della nostra riflessione. E con un’affermazione, tanto perentoria quanto discutibile, tratta dai miei Quaderni: “Una grande pittura deve avere il coraggio di una perenne inattualità.” Tanto per indicare, sin dall’inizio, la strada che andrò a percorrere.

Ho passato la vita dipingendo e interrogandomi sul dipingere, riempiendo Quaderni e Quaderni di riflessioni sulla pittura. Mettendola in relazione con la sua storia, con la grande filosofia, con la sua tecnica, con tutti i suoi sensi possibili. Ma la nostra è un’epoca a cui poco o nulla interessa l’elaborazione teorica del linguaggio della pittura: l’importante è produrre, di volta in volta, un ‘nuovo’ prodotto da mettere sugli scaffali del grande supermercato dell’arte e meno questo prodotto è appesantito da una sua interna complessità più il mercato sembra gradirlo. Per questo, gradualmente, ma inesorabilmente, tutti i pittori dotati di consapevolezza e destino, indisponibili ad adeguarsi a questi criteri, sono stati messi da parte e sono stati spinti in avanti tutti quelli che possiedono caratteristiche funzionali allo statuto della merce.

Luca Crocicchi

Fraintendimenti

E anche ora, che il dibattito su cosa sia la pittura sta riprendendo vigore (lo testimonia la richiesta di questo scritto a un pittore integrale e uno scrittore-teorico come me), vedo il rischio che la pittura incorra in altri gravi fraintendimenti e che gli esclusi di prima finiscano per essere anche gli esclusi di ora, malgrado la loro storia coerente e complessa, la loro dedizione e fedeltà, l’altissima qualità del loro lavoro. Questo perché, anziché cercare di ridefinire i paradigmi di come e cosa possa essere la pittura oggi, e, a partire da questi, utilizzare seri e scientifici criteri di selezione, si continua a inseguire il “nuovo”, l’inaudito e, sostanzialmente, si rincorre ‘l’immagine’ esattamente nello stesso modo dell’arte concettuale. Tanto per essere chiari: produrre un’immagine con i mezzi e gli strumenti della pittura, di per sé non vuol dire fare della pittura. La maggior parte delle immagini pittoriche di oggi pagano debiti altamente ingombranti col mondo del fumetto, del design, del cinema, del mondo pubblicitario, del concettuale stesso, senza riuscire a rielaborare sufficientemente queste loro radici per trasformarle in effettiva relazione visiva col mondo, senza trasformarle, appunto, in ‘mondo’, consegnando quindi l’immagine, per lo più, alla sua funzione didascalica e illustrativa.

La ‘grande pittura’, sempre, in ogni epoca, anche nella nostra, in cui è stata a lungo confinata nel limbo dei linguaggi obsoleti, è testimonianza di relazione visiva col mondo, diventando, in questa relazione, essa stessa mondo e portando ad esso le più profonde trasformazioni. A che serve la maggior parte della pittura odierna se non a decorare la parete di un salotto sopra un divano? O a produrre danaro? O a soddisfare l’egotismo patologico di tanti? O ad organizzare parate del tutto simili ai cataloghi della merce di un supermercato?

Tutta la questione del ‘senso’ del dipingere è morta soffocata sotto una valanga di chiacchiere inutili, per lo più prive di una vera cultura fondativa, anche se estremamente funzionali alle potenti strategie di marketing che impongono e modificano il gusto, determinando, di volta in volta, cosa è di moda, e quindi da acquistare assolutamente e cosa è da dimenticare. Una buona parte della critica colta, che poteva essere in grado di affiancare gli artisti più autentici e resistenti, in un percorso di ridefinizione di questi paradigmi, è stata anch’essa messa da parte dalle equivoche figure dei nuovi curatori, figli di un paio di master in comunicazione (quindi dei pubblicitari, sostanzialmente) e di qualche nozioncina di storia dell’arte mal digerita, ma molto ben informati e suggeriti dal mondo degli affari e delle gallerie à la page su chi “salvare” e chi “sommergere”.

Giorgio Tonelli, Meriggio al Central Park, 2022, olio su tavola, cm42X46.

Gli inattuali

Quindi, non è che il risorgere del dibattito su cosa sia la pittura oggi offra di per sé delle garanzie di equanimità. La lunghissima dittatura del concettuale, non ancora terminata – ma scricchiolante –, ha lasciato una città distrutta, piena di rovine, ma, soprattutto, ha insinuato nei pittori delle ultime generazioni convinzioni ed equivoci difficilmente superabili, rendendo qualsiasi “ritorno alla pittura” già intimamente avvelenato dai gas tossici rimasti nell’aria. Molta della pittura degli ultimi vent’anni è stata fortemente compromessa dalla sua relazione di sudditanza all’universo concettuale ed ha generato prodotti sostanzialmente ibridi, spesso timidi e in qualche modo sottomessi. Un’altra parte, invece, ed è quella a cui appartengo e da cui nascono queste mie considerazioni, ha reagito con l’orgoglio di chi deve rispondere esclusivamente ad una vocazione, ad un destino formale e di conoscenza, sapendo che questa scelta sarebbe stata pagata duramente, ma che, nello stesso tempo, offriva la possibilità di una autentica libertà da ogni ricatto, entro la quale svolgere il proprio compito sino in fondo. Ho definito questi artisti “inattuali”, ma non inattuali in relazione ad un’epoca precisa, o a questa in particolare, ma “perennemente inattuali”. (Dato che considero il mio lavoro paradigmatico della “perenne inattualità della pittura”, fra gli artisti che conosco e con cui si è intrecciato il mio percorso – pittori e scultori più o meno conosciuti e famosi e non – ho individuato alcune figure che possono rientrare completamente nella mia idea di “artista perennemente inattuale”, in modo del tutto indipendente dal mio gusto personale e dal loro riconoscersi in tale categoria: Giorgio Tonelli, Giuseppe Biagi, Stefano Gattelli, Luca Crocicchi, Daniele Degli Angeli, Monica Spada, Andrea Martinelli, Federico Lombardo, Paolo Iacchetti, Matteo Massagrande, Federico Guida, Francesco Michielin, Marcello Chiarenza, Alberto Mingotti, Aron Demetz, Giuseppe Bergomi, Matteo Lucca, Paola Gandolfi, Patricia Glee Smith, Carlo Bertocci, Luca Morelli, Martino Neri, Gianluca Corona, Francesco Stefanini).

Monica Spada, In ascolto, 2022, acrilico su tavola, diametro cm15.

Artisti il cui percorso, figlio solo della propria chiamata e della propria verità sperimentale, lo sarebbero stati rispetto ai dettami e alle mode estetiche di ogni epoca. Tra di essi, ancora oggi, nella tempesta entropica di un caos sempre nuovo, vanno cercati i grandi pittori e, per avere almeno la possibilità di intravedere qualcosa tra i fumi degli aperitivi e degli eventi mondani, occorre che il mondo dell’arte si svesta di arroganza e di asservimento al solo mercato e ricominci a studiare, a cercare, a darsi rigorosi criteri scientifici di lettura e selezione, a ricreare quel silenzio, quel vuoto meditativo, entro cui le opere più autentiche possano ricominciare a parlare.

Ri-definire la pittura

Scrivevo già nel 2005, tentando, di ridefinire teoricamente il territorio specifico della pittura: “La pittura è l’esercizio consapevole della relazione visiva dell’uomo col mondo attraverso i suoi strumenti specifici. L’insieme di questi (corpo, cervello, occhio, mano, pennello o altro strumento atto a stendere il colore e supporto di qualsiasi natura), codificato sin dall’origine, non è mai sostanzialmente cambiato, pur avendo subito ininterrotte metamorfosi. Per questo la pittura, che è, nel suo insieme, un linguaggio complesso, articolato e perfettamente organizzato e normato, si inscrive tra gli atti fondamentali della nostra civiltà e cultura. Nessuna moda o estetica dominante, in nessun capovolgimento epocale – esclusa, ovviamente una fine del mondo effettiva –, può, se non al prezzo di una assoluta malafede intellettuale e di una straordinaria pochezza teorica, decretare la fine o il superamento della pittura, che si è dimostrata sempre consustanziale all’essere umano nel suo destino di senso, come il soffio vitale, il respiro”.

Stefano Gattelli, Rue St.Denis, 2018, tempera e acrilico su tela, cm 40×40.

Necessità del linguaggio pittorico

In questo modo andavo sottolineando, cosa che farei anche oggi, l’assoluta necessità della pittura come linguaggio e che ogni tentativo di soffocarla si era rivelato, nel tempo, inutile e vano. Poco oltre aggiungevo, ricollegandomi con l’affermazione di Merleau-Ponty, tentando di entrare di più nel suo specifico linguistico: “La pittura è dunque essenzialmente creazione e testimonianza. La pittura, nel testimoniarlo, crea il mondo e lo rende visibile a sé e agli altri. Ogni autentica pittura, anche pagando il suo prezzo alla storia e alla tradizione delle immagini, è una creazione di mondo ex-novo. Non esistono, dunque, forme definite e definitive delle cose, degli oggetti, forme stereotipate che il “bravo” pittore dovrebbe mostrare di saper riprodurre (pensando, in buona sostanza, al suo esercizio solo come un fatto di pura abilità e creando quel virtuosismo così spesso legato a tale concezione della pittura), come pretenderebbe, nella sua ingenuità, ogni realismo, ma forme aperte e singolari create e filtrate dalla particolare sensibilità di ogni singolo pittore, tutte differenti e tutte fondanti, testimonianze della relazione fra oggetto e occhio, che è l’unico vero tema di ogni dipingere”.

Giuseppe Biagi, Paesaggio, 2022, olio su tela, cm 100×100.

Tutta la mia riflessione, dunque, consegnata per anni ai mei Quaderni, ha sempre insistito instancabilmente sul tentativo di ridefinire i paradigmi di ciò che chiamiamo “pittura”, per farla uscire dalle aride secche a cui l’aveva consegnata il mondo concettuale: “La pittura registra ogni infinitesima mutazione dell’essere. La forma, immobile, cui è consegnata la mutevolezza, è l’espressione del tempo che in essa è trascorso”, oppure: “Dipingere è un dare alla luce”. E ancora: “La pittura nasce solo nella libertà interiore. Per questo non è un’arte libera, ma soggetta alle regole più ferree. Il pittore che si crede libero di fare ciò che vuole pecca di arroganza e di superficiale vanità. Un vero artista subisce sempre la propria vocazione”, “Mentre la fai, è la pittura che ti guarda, che ti fa”.

Si apre un varco

Già molti anni fa andavo dicendo (e devo averlo scritto da qualche parte!) che il vero nemico della ‘grande pittura’ non era il ‘concettuale’, ma la ‘cattiva pittura’ e che, mano a mano che la questione della pittura sarebbe tornata alla ribalta e, con essa, tutta quella pletora di artisti che, inevitabilmente, seguono gli andamenti del gusto, la “grande pittura” si sarebbe trovata in difficoltà ben più grandi di quelle incontrate nel suo misurarsi con l’arte concettuale. Credo che, almeno dal mio punto di vista – un punto di vista radicale, del tutto personale e confutabile –, questo sia avvenuto e stia avvenendo ogni giorno. Tanto per parlar chiaro, la “cattiva pittura” non si annida soltanto dove ha sempre trovato il suo terreno più fertile, cioè negli hobbisti e nei pittori della domenica, ma anche nella cosiddetta “pittura professionale”, riconosciuta e presente nelle gallerie e nelle fiere.

Enrico Lombardi, “Rosso di sera. Omaggio al Beato Angelico” ,2023, cm 110×100 acrilico su tela.

Questo perché, come ho detto sopra, non si sa più bene cosa sia pittura oggi e, quindi, si cade nell’inganno di pensare che ogni immagine dipinta sia pittura. In tutta questa caduta libera grandi colpe hanno i pittori stessi che non hanno, se non raramente, sviluppato una forte cultura teorica, espressione di una prassi e che sono stati, quasi sempre, facili prede dell’intellettualismo concettuale che, invece, avendo rinunciato alla fatica dell’opera in senso tradizionale, si è sviluppato in modo ipertrofico nella ricerca dei motivi e delle ragioni. Credo che non sia ancora giunto il tempo in cui la grande tradizione della pittura italiana possa riconoscere i suoi eredi legittimi, ma almeno un varco si sta aprendo e, in esso, io lavoro instancabilmente perché si allarghi sempre di più fino alla caduta del ‘totalitarismo’ della merce. Così come, prima o poi, cade ogni totalitarismo politico a partire dalla sua inesorabile e inevitabile crepa.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Artuu consiglia

Iscriviti alla Artuu Newsletter

Il Meglio di Artuu

Ti potrebbero interessare

Seguici su Instagram ogni giorno