Biennale 2024: l’outsider art non è mai stata così “in”

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Continua la nostra analisi della Biennale di Venezia 2024, un evento sfaccettato che offre a tutti gli appassionati di arte numerosi punti di vista sull’arte moderna e contemporanea. La Mostra Internazionale, curata da Adriano Petrosa, si articolerà infatti in Nucleo Storico – con opere del XX secolo provenienti da America Latina, Africa, Asia e Paesi Arabi – e Nucleo Contemporaneo. Quest’ultimo svilupperà tre filoni, connessi strettamente al significato etimologico di “straniero”, cioè “estraneo, sconosciuto”: l’artista queer, “estraneo” poiché emarginato, che indaga una nuova e più consapevole sessualità e concezione di genere; l’artista outsider, autodidatta, definito anche folk o popular e l’artista indigeno, considerato straniero – la storia ce ne fornisce prova – anche nella propria terra.

Tra gli outsider quest’anno verranno presentate tre straordinarie artiste europee: Madge Gill dal Regno Unito, Anna Zemánková dalla Repubblica Ceca e Aloïse Corbaz dalla Svizzera.

Magde Gill, Untitled, 1954

In “Outsider art”, conosciuta anche come Arte Irregolare o Art Brut, si includono le opere prodotte da persone che si sono mantenute lontane dal mondo dell’arte, scuole, accademie, salotti, esposizioni e gallerie, conservando così la purezza originale, l’innocenza che separa il loro modo di fare arte dai canoni e dai condizionamenti del mercato e della fama.

In Europa, si comincia a parlare di Arte grezza o Arte spontanea dal 1945, quando il pittore francese Jean Dubuffet, con l’espressione, cominciò a identificare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti, autodidatti, psicotici, prigionieri, medium ed eccentrici, che operavano senza tener conto delle norme estetiche convenzionali, della necessità di approvazione sociale o della concorrenza.

Le tre artiste che saranno esposte durante la Biennale rappresentano tre modi differenti di delineare la propria interiorità e sono accomunate da un forte senso di spaesamento e da una latente sofferenza, che le accompagnerà per gran parte della vita.

Magde Gill

È il caso di Madge Gill (1882-1961), portata in orfanotrofio all’età di nove anni, nonostante la madre fosse ancora viva, poi inviata con sue coetanee a lavorare come domestica a Quebec City. Dai venticinque anni: il lavoro da infermiera, l’avvicinamento alla spiritualità e all’astrologia grazie a una zia, il matrimonio con un cugino, la perdita del secondo figlio, il parto di una quarta figlia, nata morta, e l’aver contratto una grave malattia che la obbligò a un lungo periodo di degenza e la rese cieca dall’occhio sinistro.

Durante questo periodo, Gill comincia a interessarsi al disegno, dandosi completamente all’arte e producendo migliaia di opere, la maggior parte con inchiostro in bianco e nero, dalle dimensioni più svariate, da una cartolina a enormi fogli di tessuto di oltre 9 metri di lunghezza. Per tutti gli anni della sua immersione artistica, sostenne di essere guidata da uno spirito dal nome “Myrninerest”, nomignolo con cui firmava spesso anche le sue opere, vedendo sé stessa unicamente come tramite tra il mondo concreto e quello spirituale, di cui lei era messaggera. Nelle sue opere, a predominare sono i soggetti femminili, dagli sguardi vaghi e gli abiti morbidi, intrecciati a figure geometriche e disegni ornamentali.

Come Gill, anche Anna Zemánková (1908-1986) tradusse in arte la sua frustrazione. Forzata dal padre a diventare assistente dentista, nonostante la passione per il disegno fin da bambina, lasciò presto il lavoro per dedicarsi alla vita di moglie e madre e occuparsi della casa. Dopo la perdita di uno dei tre figli maschi e la fine della seconda guerra mondiale, fu l’amputazione delle due gambe a causa del diabete a spingerla nel profondo baratro della depressione.

Anna Zemánková, Untitled, 1975

Avendo perso molto, a più di cinquant’anni, Anna cominciò a dedicarsi a ciò che sempre aveva amato: il disegno, a cui riservava le ore mattutine, tra le quattro e le sette, quando la notte lasciava lentamente spazio ai chiarori dell’alba. Come spinta da una forza estranea, riempie di fiori, spirali, vegetazione e forme geometriche i suoi fogli, nella spontaneità dell’ispirazione.

Aloïse Corbaz (1886-1964), tra le tre, è forse quella che più ha goduto della spensieratezza dell’infanzia, cresciuta in una famiglia di classe media, che teneva alla sua cultura e istruzione. Il tracollo avvenne a seguito della prima guerra mondiale, quando, dopo la diagnosi di schizofrenia, fu rinchiusa nel manicomio in cui trascorse tutti i giorni della sua vita fino al momento della morte.

Due opere di Aloïse Corbaz

La sua arte, diffusa postuma, nacque tra quelle mura. Macchie di colore, petali schiacciati, immagini da riviste, e molto più spesso pastello e matita, su fogli gettati via, carta da imballaggio recuperata e cartone, su cui rappresentava donne sensuali, ammiratori speranzosi e scene di amore epico.Le tre donne, artiste per necessità, più che per aspirazione o per volontà, trovarono nell’arte il primo motivo che condusse gli uomini a dipingere sulle pareti delle caverne: esorcizzare la paura, dell’esterno, nel caso di animali feroci; del nemico, e dunque dell’estraneo, tema principe della Biennale 2024, e infine di sé stessi. Malate, mutilate, folli, incomprese, allontanate, emarginate, rinchiuse, scabrose, madri, mogli, donne, Madge Gill, Anna Zemánková e Aloïse Corbaz sono più che mai specchio dell’età contemporanea.

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