Fabio Amaya, lo spazio come labirinto

Getting your Trinity Audio player ready...

Fabio Amaya è un artista colombiano, un intellettuale poliedrico, romanziere, saggista, do­cente universitario che disegna e dipinge da sempre. Il mondo artistico di Amaya è un vero punto di fuga, ma non per sfuggire alla realtà, bensì per introdursi e introdurci in un altro spazio, metafisico e vitale, allargando un varco che normalmente sembra precluso. I suoi interni architettonici sono velati di colori caldi e freddi, la pittura è compatta, snella. La percezione dello spazio fisico visibile, ma soprattutto quello mentale, è modificato verso la ricerca della serenità. Questa mostra allo Spazio Mudima di Milano, a cura di Davide Di Maggio, visitabile sino al 1° marzo è il risultato di un lungo percorso. In questa intervista ci racconta il suo mondo.

Parliamo della tua ultima personale, Presenze/Presencias, mi hai detto che erano opere che avevi negli anni scartato.

La mostra si intitola Presenze/Presencias proprio perché sono presenze che mi hanno accompagnato nel corso degli anni, sono quelle che vengono chiamate carte di studio o carte di atelier, cioè le cose che uno non considera più importanti. Le ho riprese in mano e tradotte in quadri anche di grandi dimensioni. In questa mostra ho voluto creare uno stacco radicale con una finta prospettiva, non c’è un punto di fuga e non c’è l’applicazione della prospettiva classica ma sono tutte prospettive “sbagliate”.

Anche l’uso dei colori è molto fuorviante, non ci sono sfumature, sono netti.

Uso colori molto forti soprattutto quelli primari, puliti cioè non vado alla ricerca delle atmosfere come era nella mia pittura precedente, ma cerco sempre più elementi primordiali, diciamo elementari. Francis Bacon diceva sempre che ciò che è fondamentale è che nell’impatto visivo dello spettatore si crei un’alterazione del sistema nervoso.

Nelle tue opere ciò che si percepisce maggiormente è la solitudine.

A me interessa molto l’impatto visivo, sono  immagini di sofferenza, di tortura con corpi isolati in spazi inesistenti e quindi la mia è una denuncia, una risposta. Le scelte politiche di un artista devono essere fatte in campo artistico, cioè l’artista non è colui che urla viva la rivoluzione, viva il cambiamento, ma è quello che di fronte agli strumenti del proprio mestiere prova a proporre delle alternative.

Questo è anche parte della tua storia personale?

Io vengo da un paese che dal 1492 è in guerra, un paese dove non c’è mai stato un periodo di pace e che è tuttora in guerra. La Colombia è un Paese unico al mondo, caratterizzato da un eccesso di violenza, che ha portato anche a una guerra interna. Ci sono quattro, cinque anche sei eserciti sempre in lotta. Sono nato sotto un regime dittatoriale e di repressione e questo naturalmente ha influenzato la mia vita e il mio lavoro.

Quando sei arrivato in Italia?

Sono arrivato in Italia nel ’75 e appena arrivato ho dedicato gran parte del mio lavoro ad un’iconografia della tortura e ho fatto una lunga ricerca sull’Inferno Dantesco che mi riportava a cose viste e vissute.

Nel 2009, nella mostra Hay Otro, un altro, hai ribaltato i canoni tradizionali della prospettiva e dell’unicità del punto di osservazione, scatenando nello spettatore un senso di spaesamento percettivo. Cosa volevi comunicare?

In quell’esposizione il mio intento era quello di avere un altro sguardo per i miei lavori, cioè quello dello spettatore, di chi guarda il quadro. Le opere in mostra avevano un sapore espressionista ero alla ricerca di un modo per eliminare il disegno tradizionale, quello che separa la figura dal fondo. Ho utilizzato quindi una tecnica per far sì che la figura lentamente incominci ad emergere. Da vicino sembravano opere astratte, ma a mano a mano che ci si allontanava, la visione mutava e allora venivano percepite le immagini.

In architettura della solitudine, altra tua personale del 2011, hai utilizzato l’autoritratto, come in una ricerca spasmodica, ossessiva della tua identità.

Erano disegni fatti con grafite su carta, disegni molto dettagliati, molto legati diciamo alla tradizione classica del disegno. Partivo da una lettura dal mio inconscio per arrivare a quello che è il visibile, il percepibile. Continuando a pormi domande e a cercare risposte, che non sempre arrivavano e/o che, se arrivavano non sempre erano gradite.

Quali sono i punti cardine della tua ricerca?

Le condizioni infernali in cui l’uomo contemporaneo vive. Questo è uno dei punti che più mi interessa insieme alla solitudine, la violenza e l’eccesso di potere. La condizione delle classi meno abbienti e il fatto che la società sia ancora e in questi termini. Un mondo dove è privilegiato l’aspetto economico, siamo io credo in una fase inarrestabile di decadenza.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Artuu consiglia

Iscriviti alla Artuu Newsletter

Il Meglio di Artuu

Ti potrebbero interessare

Seguici su Instagram ogni giorno