Questa sarà la Biennale “no gender”. Ma che fatica arrivarci!

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Adriano Pedrosa ha fatto il miracolo: fine dei conteggi, dei “tu no e io sì”, delle rivendicazioni di genere, dei “ce ne sono troppe” oppure “no, ce ne sono troppo poche”. Con i suoi Stranieri ovunque, il primo curatore dichiaratamente queer della Biennale di Venezia ha spazzato via il problema, aprendo a tutti quelli che si sentono outsider, compreso – e ci ha tenuto a sottolinearlo – chi si sente tale in relazione alle proprie inclinazioni sessuali. Primo significato della parola queer, del resto, secondo l’American Heritage e l’Oxford English Dictionary è proprio strange, strano. Ecco: bandite le stranezze – la cui definizione stessa comporta un’alterità “normale” – lo strano diventa la regola e le porte, magicamente, si spalancano. E il concetto è talmente fondante, per questa Biennale, che se si va a cercare la lista degli artisti, non si trova, come accade andando indietro nelle edizioni precedenti, la dicitura “nato” o “nata”, ma molto più semplicemente la città e la data di nascita. Fatti, non parole.

Valeria Montti Colque, invitata al Padiglione della Repubblica del Cile. Credito Jean Baptiste Engblad Berange.

Se questo spalancarsi delle porte agli outsider convoglierà in Biennale artisti autodidatti, fuori dalle regole, ai margini del mondo dell’arte, disobbedienti, folk, popular e indigeni, a noi, qui, interessa soprattutto proprio il gender e come il gender – quando ancora si parlava in maniera molto primitiva di maschile e femminile e basta – sia stato fino ad oggi un tasto assai dolente.

Già, perché se si sfoglia la storia della Biennale di Venezia dai suoi albori ad oggi la sensazione è la stessa che si prova sfogliando un manuale – anche l’ultimissima edizione in dotazione alle scuole – di storia dell’arte: pochissime donne, sempre le stesse (e di solito raccontate in relazione agli uomini).

Kapwani Kiwanga, rappresenterà il Canada nel suo Padiglione.

Nei primi cento anni della manifestazione, dal 1893 al 1993, hanno partecipato circa 1.650 artiste donne. Così tante, dite? No: pochissime! Gli artisti maschi sono stati 12.600, assestando la presenza femminile intorno a un risicato 13 per cento. E non pensate che tutti gli anni ci sia stato – almeno – il 13 per cento di donne. Ma va’ là: c’è stato un incredibile picco di circa il 21 per cento (da stappare lo champagne) nel 1978 e un altro nel 1993. Quelli hanno rimescolato un po’ le cifre. La verità è che a parte un misterioso 11,83 per cento nel 1940, un quasi 11 per cento nel 1956, un 11 per cento nel 1960 e un quasi 13 nel 1970, la percentuale di presenza femminile (salvo un momento un po’ più florido tra il 1980 e il 1984) è stata per tutto il resto del conteggio tragicamente sotto il 10. E stiamo parlando di cento anni che travalicano fino al 1993, non del Medioevo.

Va bene: allora guardiamo più vicino e concentriamoci sugli ultimi meravigliosi dieci anni di Biennali. Immagino Massimiliano Gioni come un vero uomo del terzo millennio, con una moglie curatrice – piuttosto agguerrita, tra l’altro – e quindi decisamente in grado di apprezzare la professionalità femminile. Eppure il suo Palazzo Enciclopedico, la Biennale che firma nel 2013, mette in lista una quarantina di donne su 160 artisti (24 per cento). Poi arrivano tre edizioni che fanno salire un po’ la percentuale, assestandosi tutte più o meno sulle medesime proporzioni: quella di Okwui Enwezor, nel 2015, con 51 donne su 136 artisti; quella di Christine Macel, nel 2017, con 43 presenze femminili su un totale di 120; e quella di Ralph Rugoff, nel 2019, con 30 su 79. Una percentuale di artiste che oscilla tra il 35 il 38 per cento (dove curiosamente la mostra con minor presenza femminile risulta quella firmata da una donna).

Eimear Walshe, invitata alla Biennale nel Padiglione dell’Irlanda.

Poi arriva il Covid. Tutti ci chiudiamo terrorizzati nelle nostre case, le città si svuotano come in un incubo distopico, le mostre si fanno online – quando si fanno – gli eventi con più di dieci persone vengono banditi, i jogger sono inseguiti sulle spiagge dai droni, e mentre il pianeta si riempie di mascherine e guanti di lattice che ci metteranno – secondo gli studi scientifici – circa 450 anni per decomporsi (sempre che ce li abbiamo, 450 anni), gli artisti si chiudono in studio a scolpire e a dipingere. I curatori, generalmente, a piangere. Dura meno di un attimo la speranza che la cinquantanovesima Biennale possa avere luogo nel 2021. E mentre le fiere d’arte saltano come birilli, si decide che la prossima Biennale di Venezia sarà nel 2022.

Mounira Al Solh rappresenterà il Padiglione del Libano.

Attesa come un figlio a lungo desiderato, Il latte dei sogni è la Biennale della rinascita e della rivincita. Non solo dal Covid: da tutto. Cecilia Alemani sceglie gli scritti di Leonora Carrington per dare un titolo di speranza – quanto ne avevamo bisogno! – e poi apparecchia al mondo la Biennale più rivoluzionaria di sempre, mettendo uno in fila all’altro 213 artisti dei quali 191 sono donne. Il 90 per cento.

Iva Lulashi, che rappresenterà l’Albania.

Non sono mancate le polemiche, è ovvio. Perché poi se una Biennale è scarsina, è banalmente una Biennale scarsina. Se invece in una bella Biennale con un sacco di donne – e lo era eccome, Il latte dei sogni, una gran bella Biennale – ci sono anche opere che non convincono, il pensiero comune è che forse, se non si fosse concentrata solo sulle donne…  Ebbene, ci sono cascata anch’io, in questo equivoco. E poi ho capito. Illuminata, ho compreso che Alemani non aveva fatto atto di contrizione contro un sistema che aveva schiacciato le donne. No. Lei aveva fatto una provocazione: mettiamo sul piatto la percentuale di donne che per cento anni e più è stata appannaggio degli uomini, e vediamo un po’ che succede.

Una provocazione egregiamente raccolta da Adriano Pedrosa.

E adesso, al di là di tutti i possibili conteggi, facciamo parlare le opere.

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