Papeschi, il crepuscolo dei nani. Per raccontare il declino dell’Occidente

Da Topolino in divisa nazista alla nuova civiltà aliena. O ancora: da Ambasciatore del Ministero della Propaganda della Corea del Nord del “leader supremo” Kim Jong-un, notorio dispensatore a mani basse di minacce nucleari, all’estinzione totale della razza umana. È il percorso, solo apparentemente bizzarro e contorto, ma in realtà più che mai coerente e in linea con i “canoni” del contemporaneo avanzato, di Max Papeschi, “artista per caso”, come lui stesso si definisce, con alle spalle studi di cinema e teatro, un inizio di carriera come regista televisivo di successo, per approdare infine all’arte come un ciclone fulmineo, travolgente e inarrestabile, in un momento storico – il 2008 – caratterizzato non solo dall’inizio della spaventosa crisi che in breve avrebbe travolto, anche nell’arte, carriere fino a quel momento considerate intoccabili, ma anche di quel ricambio profondo, generazionale e culturale, che in breve avrebbe mandato a carte quarantotto ogni considerazione e ogni certezza acquisita: tra le altre, quell’idea di arte elitaria, sussiegosa e snob che aveva caratterizzato il sistema fino a quel momento.

Max Papeschi a destra con lo scrittore Massimiliano Parente assieme hanno scritto il libro Max vs Max Giunti 2018

Papeschi, come una specie di Forrest Gump catapultato nel posto giusto al momento giusto, sguazzò in quel passaggio di testimone culturale, formale e teorico, finendo subito al centro dell’attenzione mediatica. Folle sparigliatore di carte e funambolo dell’estetica popolare diffusa, Papeschi catapultò infatti, fin dall’inizio, al centro del suo lavoro personaggi e tematiche fino a quel momento non considerate neppure degne di entrare nell’agone artistico, follemente mescolate con elementi tratti dalla “Grande Storia”, quella del Novecento, fatta di ideologie, di fanatismi, di eccidi di massa, di guerre e di minacce nucleari. Ecco allora fare il loro ingresso Topolini, Gatti Silvestri e Paperini immersi in guerre nucleari, dittatori con il volto di Topo Gigio o di Micky Mouse, Ronald McDonald guerrafondai, Teletubbies impazziti, scimmie supereroi lettrici del Mein Kampf, bimbi sterminatori seriali e Cristi-razzi nucleari.

Un’ossessione per la politica intesa in senso spettacolare, favoloso e surreale, la capacità di mescolare incessantemente le carte in tavola tra storia reale, capriccio fantascientifico e favola pop-distopica, una predilezione per il politiccally uncorrect e per l’accostamento ossimorico, arguto e irriverente di ciò che a rigore non potrebbe proprio stare insieme, Papeschi dimostrò in pochi anni di avere le carte in regola per diventare uno dei protagonisti di punta della new wave artistica italiana. Raccontando anche se stesso, le proprie origini e il proprio universo nel suo primo libro (ne seguiranno altri, uno con lo scrittore Massimiliano Parente, ndr), che diventò subito best seller, Vendere svastiche e vivere felici (Sperling & Kupfer 2014), primo caso di artista che diventa popolare raccontando la propria storia ai lettori invece che raccontare la propria storia dopo essere divenuto artista di successo. Ribaltamento di ruoli, di processi creativi e di logiche mediatico-pubblicitarie che fanno tutt’uno con il perenne ribaltamento dei ruoli di cui Papeschi dà prova fin dall’inizio della sua carriera.

E oggi, ecco che Papeschi stupisce ancora il pubblico, rinnovandosi sempre ma sempre rimanendo fortemente coerente con se stesso. Il progetto presentato in queste settimane a Milano, infatti (fino all’11 aprile), al “varco” – non temporale, ma spaziale – dell’aeroporto di Malpensa (noto non a caso come la “Soglia Magica”, luogo di passaggio reale ma anche simbolico tra la città e il non-luogo dell’aeroporto vero e proprio, con le sue regole e il suo carico di aspettative e di proiezioni psicologiche verso un “altrove” indefinito), si intitola per l’appunto “Extinction. Chapter one”, ed è costituito dalla bellezza di 54 sculture in terracotta a grandezza naturale, raffiguranti altrettanti guerrieri di Xian in foggia di nani da giardino.

Già passato, in una tappa precedente di qualche mese fa, al Palazzo delle Stelline di corso Magenta, sempre a Milano, il progetto, come sempre ricco di rimandi e di stratificazioni di significati di diverso genere, si intitola Il crepuscolo dei nani – in tedesco Zwergen Dämmerung – citazione distopica nicciano-wagneriana, dove agli Dèi del dramma wagneriano e agli idoli della filosofia di Nietzsche viene sostituito un esercito di banalissimi nani da giardino, divenuti, in una folle fantasmagoria goliardico-fantascientifica, gli unici e veri eroi venerati da un’umanità ormai definitivamente estinta, e ricostruita, è lecito presumere, soltanto attraverso l’intelligenza artificiale, dalla civiltà, ça va sans dire aliena, che nel tempo l’ha sostituita. Una favola fantascientifica folle e distopica, un divertissement intellettuale materializzatosi sotto forma di un immenso e assurdo esercito, tanto sorprendente quanto bizzarro e minaccioso, di nani-giganti che avrebbero dovuto, come l’esercito dell’imperatore Qin Shi Huang a Xian, dominare e proteggere il mondo dei vivi e quello dei morti, le civiltà passate e quelle future, mondi reali e immaginari. E che, invece, nella loro tragica e geniale implausibilità, appaiono soprattutto il segno di un immenso misunderstanding culturale, il segno indelebile di un inganno, di un fallimento, quello di una civiltà come la nostra, inevitabilmente ingarbugliata e attorcigliata su se stessa e sulle proprie sempre più insanabili contraddizioni.

Introdotto da una citazione di uno dei più caustici e corrosivi intellettuali tedeschi d’inizio Novecento, Karl Kraus (“Quando il sole della cultura è basso all’orizzonte, i nani hanno l’aspetto di giganti”, evidente parafrasi del motto medioevale “Siamo nani sulle spalle di giganti”, che riconosceva agli antichi la supremazia morale, e a noi il dovere di imitarli), il nuovo progetto papeschiano è una tragica seppur divertita parodia di una civiltà, la nostra, in graduale e inarrestabile discesa verso la possibilità sempre meno remota dell’estinzione, non solo fisica e materiale, originata da guerre sempre più cruente e dal progressivo e più volte annunciato disastro ecologico e ambientale, ma anche culturale, sociale, identitaria – ed è questa, dopotutto, sembra dirci l’artista, anche attraverso la citazione di Karla Kraus, la causa prima e originaria del disastro. “Quando una civiltà perde il senso di sé e della propria storia, quando perde ogni senso del limite, del logico, del bello, di ciò che, culturalmente, lo ha caratterizzato fino a quel momento, ecco che la sua estinzione è già in nuce, è come se fosse insita nella sua stessa storia. La nostra intuizione è stata la conseguenza di questo ragionamento”.

Ecco che, allora, tout se tient nel lavoro di Papeschi, tutto torna, frullato e macolato, in questa narrazione insieme tragica ed esilarante che l’artista ha fatto della nostra contemporaneità, attraverso il pout-purry folle, caleidoscopico e distopico, composto da elementi disparati e apparentemente senza senso, di simboli e immagini provenienti dai canoni e dagli ambiti più vari, dove ciò che alle generazioni precedenti faceva ridere (i cartoni animati, Micky Mouse, Topo Gigio), è inestricabilmente mescolato con ciò che metteva paura e creava drammi, calamità e devastazioni (guerre, violenza, dittature). E che oggi, con l’aiuto di Flavia Vago – da tempo compagna di viaggio dell’artista nell’ideazione e realizzazione dei suoi progetti – ha immaginato questa sua nuova opera, stratificata in tappe successive, come una sorta di rappresentazione del punto-culmine della civiltà come siamo abituati a concepirla fino ad oggi, come susseguirsi coerente di idee, di fenomeni, di conquiste scientifiche, culturali e tecnologiche in continuo e progressivo sviluppo.

Concepito in quel periodo estremo e altamente simbolico che è stata la pandemia, il progetto “Extinction” prende il via da alcune visite fatte a Cnosso e a Parigi, visitando il Louvre, in cui l’artista, con Flavia Vago, si accorge della natura arbitraria delle ricostruzioni archeologiche tradizionali. “Ci siamo resi conto”, spiega l’artista, “che la maggior parte delle rappresentazioni che oggi noi vediamo nei musei sono dei falsi storici, dei rifacimenti del tutto arbitrari di ciò che noi, attraverso informazioni parziali e magari deformate, ci immaginiamo delle civiltà antiche. Da qui nasce l’idea di una mostra concepita sull’ipotetica ricostruzione, da parte di una razza aliena, di una civiltà estinta, la nostra”. Ecco allora i “nanetti da giardino” che divengono un esercito temibile e potente, ma destinato a vegliare sul nulla, su quel deserto che saranno le vestigia ormai perse e dimenticate della nostra “vera” civiltà.

Ad accompagnarli, la ricostruzione vorticosa e sorprendente del processo dinamico-creativo con cui quella stessa civiltà aliena, depositrice della memoria storica distorta e impazzita dell’umanità, avrebbe ricostruito, con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, le coordinate degli idoli che, presumibilmente, sarebbero stati i nostri dèi: null’altro che nani, appunto, scambiati per giganti. Forse davvero una tragicomica profezia per la nostra civiltà in rapido e inarrestabile declino. Ma forse, com’è avvenuto in altre epoche, alla fine saranno proprio la cultura, l’arte, la creatività scaturite da questo processo negativo, che potranno un giorno salvarci dal declino. Come diceva un vecchio proverbio anarchico, “una risata vi seppellirà”. Chissà che invece questa volta non ci salvi. Anche dall’estinzione.

Max Papeschi | EXTINCTION – Chapter One
a cura di Stefania Morici

Un progetto realizzato con la collaborazione di Flavia Vago, AIIO, Michele Ronchetti e Fabrizio Campanelli

e la consulenza speciale di Gianluca Marziani
Prodotto e organizzato da Arteventi in collaborazione con SEA Aeroporti di Milano,
supportato e promosso da MI HUB Agency e ArTI

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