Piero Gilardi, a Parma l’arte tecnologica dell’utopista che previde il futuro

Era il 1963 quando un artista torinese, poco più che ventenne, inaugurava la sua prima mostra con una serie di opere chiamate “Macchine per il futuro”. Erano meccanismi apparentemente semplici, corredati da schemi pseudo-scientifici, in cui si profetizzava una società futura in cui tutto sarebbe stato governato dalle macchine e dalle tecnologie, e anche la più comune delle attività – dal chiacchierare al produrre al generare figli – necessitava quindi di una macchina, e di relativo schema, per metterla in pratica. Una società a cavallo tra fantascienza, utopia e distopia, parametri che avrebbero accompagnato il lavoro di Piero Gilardi per tutta la sua vita. “Questa mostra”, avrebbe raccontato l’artista molti anni dopo, “composta di modelli e grafici pseudoscientifici, era la prefigurazione certo ingenua, ma indubbiamente profetica, di una società cibernetica, non dissimile da quella che si sta oggi sviluppando con l’informatizzazione, la virtualizzazione e i nuovi media”.

Piero Gilardi, Macchine per il futuro: macchina per discorrere, 1963.

Di certo, quelle prime macchine, che sembravano in qualche modo figlie della tensione futurista per la meccanizzazione (pensiamo a quelle straordinarie invenzioni che furono ad esempio gli Intonarumori di Luigi Russolo), e per un’idea di futuro robotizzato e agevolato dalle novità tecnologiche, senza tuttavia perdere in poesia e in immaginazione, erano una prima, ancora incerta prefigurazione di molti dei lavori che caratterizzato l’operare di Piero Gilardi nel corso della sua lunga attività. In quella mostra torinese, infatti, si intravedevano già in nuce due costanti del lavoro di Gilardi: l’esigenza di ricostruire il futuro e quella, strettamente connessa, di ricostruire la natura. Dovremo aspettare pochi anni perché vedessero la luce i primi Tappeti natura, ideati nel 1964 come estensione di quel pensiero profetico di fusione totale tra naturale e artificiale su cui l’artista avrebbe lavorato sempre.

Oggi, la mostra “Survival” dedicata a Piero Gilardi, in corso a Parma nell’ambito del Festival PARMA 360 intitolata “HOMO DEUS”, a cura di Chiara Canali e Camilla Mineo, riporta in auge non solo le teorie di Gilardi, che prima di molti altri artisti profetizzò e immaginò, inserendole come tematiche “alte” della sua produzione artistica, le moderne interazioni tra pensiero e azioni umane e software digitali, ma anche alcune delle sue opere interattive, come Panthoswall, del 2003, in cui il visitatore interagisce con una grande installazione ambientale sul genere dei classici “tappeti natura”, muovendosi e “dialogando” con essa, e assistendo, grazie ai propri movimenti, a una sorta di “risveglio” della natura artificiale.

Ma nella mostra di Parma non è questa la sola installazione tecnologica di Gilardi presente: oltre a diversi dei suoi splendidi e celeberrimi Tappeti natura, c’è ad esempio uno Scoglio bretone, del 2001, con cui il visitatore interagisce sedendovisi sopra, e attivando automaticamente un suono tipicamente marino; e ancora, l’installazione La tempesta perfetta, del 2017, che già affrontava, in anticipo sui tempi, il tema del cambiamento climatico: “Viviamo in un tempo storicamente incerto, impotenti di fronte agli eventi estremi del clima che sta gradualmente, ma ineluttabilmente, peggiorando le condizioni della vita biologica sul Pianeta Terra”, scriveva l’artista nel presentare il progetto alla sua nascita. “Non siamo più abituati a prendere in considerazione le fluttuazioni dell’odierna meteorologia, perché sono largamente imprevedibili e ingestibili nelle loro contingenze. Oggi la questione nodale è che occorre riequilibrare il Pianeta, il che significa ritrovare una proporzione nel rapporto tra le attività antropiche e l’ambiente. Per fare questo occorre cambiare i rapporti di forza tra le classi sociali, tra città e campagna, tra Nord e Sud del mondo”.

Piero Gilardi, La tempesta perfetta. Foto Massimo Dall’Argine.

Ecco che la Tempesta perfetta, allora, si presenta come un’installazione interattiva composta da un tapis roulant, su cui il visitatore è invitato a salire per interagire con la macchina, e da uno scaffale sormontato da un simulacro di palma mosso dal vento; lo scaffale contiene due ventilatori e un monitor che mostra, durante la performance, immagini di un uragano ripreso dal satellite, accompagnate da una sorta di turbine di stringhe di organza e da una colonna sonora ispirata al Concerto in Si minore di Mozart, mentre i due ventilatori costringono i visitatori a “vivere” sulla propria pelle, attraverso l’azione di un vento fortissimo, la forza dell’uragano. Un modo per calare il pubblico direttamente mani e piedi nel problema del cambiamento climatico, e non soltanto come questione squisitamente filosofica o teorica. Un modo, anche, per scoprire nuovi modi di interazione con le macchine, che oggi, con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, stiamo sperimentando a un grado che non ci saremmo mai immaginati prima. “Mi viene in mente”, diceva Gilardi qualche anno fa, “un’affermazione di René Berger (storico dell’arte e saggista svizzero, che ha riflettuto molto sulle implicazioni che l’elettronica e l’informatica hanno all’interno della nostra esistenza e della nostra coscienza, ndr) che sosteneva all’incirca questo: noi non comanderemo più le macchine, come abbiamo fatto finora, ma non saremo nemmeno comandati da esse: ‘faremo con le macchine una grande alleanza e non saremo più comandati dagli dèi, sotto le cui vestigia abbiamo sempre coperto i misteri’”.

Piero Gilardi, Stop Pollution, 2015, cm 100×100.

Un’utopia di fusione uomo-natura, e uomo-software, che richiama certe distopie fantascientifiche, ma che in realtà appoggia le sue basi teoriche su studi approfonditi e rigorosi, condotti dall’artista nel corso di oltre trent’anni, proprio sulla prefigurazione del futuro attraverso l’ampliarsi delle nozioni tecnologiche e della nostra interazione con esse. “Nel 1985”, raccontò Gilardi in una intervista, “ho affrontato il problema delle nuove tecnologie e dei nuovi media con delle motivazioni sostanzialmente politico-ideologiche, perché si cominciava a capire – in ritardo – che la società stava cambiando sotto la spinta della cosiddetta ‘rivoluzione informatica’; e che gli strumenti tradizionali dell’opposizione politica e culturale diventavano obsoleti”.

Piero Gilardi, Palmeto con cocchi, 2001, cm 150×150.

Gilardi, eretico per natura ed eterno cane sciolto rispetto ai movimenti consolidati e storicizzati (compresa l’Arte Povera, a cui fu associato ma sempre da ‘fiancheggiatore’, mai come artista ‘organico’ al movimento creato da Celant nel 1967), ha infatti avuto per anni un approccio all’arte che, in linea col pensiero utopistico e generosamente ‘aperto al mondo’ e alle istanze sociali tipico del periodo, voleva uscire dal semplice discorso linguistico sul contemporaneo, ma affrontare le questioni urgenti che premevano sotto la pelle della società: non a caso si sottrasse completamente al sistema dell’arte e al lavoro artistico strettamente inteso per quasi vent’anni, dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta, dedicandosi all’arte-terapia in “atelier psichiatrici” all’interno dei manicomi, con battaglie per cure più adeguate e umane per chi soffre di disturbi psichici, e poi con esperienze di teatro di strada, di animazione in Africa con i nomadi Samburu, con tribù di indiani messicani, con Indios del Nicaragua, con operai e studenti torinesi in collettivi di arte “dal basso”, performance durante le manifestazioni, autogestioni, gruppi di discussione e molto altro.

E anche la sua attenzione alla tecnologia, in un momento in cui non si poteva veramente profetizzare, se non con un grandissimo sforzo dell’immaginazione, lo sviluppo che avrebbe preso in seguito e a cui siamo arrivati oggi, è stato sempre un approccio fondamentalmente sociale e soprattutto umanistico, attento, cioè, alle esigenze dell’uomo rispetto alla società e alle sue dinamiche. Maturando via via la convinzione che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, fosse necessario “tornare all’uomo”, alle sue esigenze e ai suoi bisogni profondi, anche esplorando il rapporto con queste, con esperienze e installazioni al limite dell’utopistico e del fantascientifico, che accogliessero le sfide offerte da quella che un tempo si chiamava “cibernetica”: con, in sottofondo, il timore che le stesse tecnologie si trasformassero in uno strumento di disumanizzazione e di alienazione dell’individuo.

Piero Gilardi, Pianta di fico, 1991, cm 100×100.

Con implicazioni, soprattutto inizialmente, marcatamente politiche, come raccontò lo stesso Gilardi al critico Marco Meneguzzo in un dialogo avuto nel 1995: “Credo di aver avuto un rapporto probabilmente ideologico con la tecnologia solo nel periodo delle macchine per il futuro, tra il 1961 e il ’63. Avevo in quel momento una tensione utopica incentrata sulla valenza salvifica della razionalità tecnologica, non dissimile dall’ideologismo dei primi futuristi e dei situazionisti. Quando a metà degli anni Ottanta mi sono riaccostato al problema della tecnologia, l’ho fatto non per un motivo ideologico, ma politico: lavoravo infatti in un Collettivo politico-artistico militante in cui si analizzava la sconfitta della classe operaia determinata dalla ristrutturazione tecnologica delle fabbriche e si formulava l’obiettivo di lavorare per l’appropriazione dal basso dei saperi tecnologici”.

In realtà, nel progetto, tutto politico, di “riappropriazione dal basso” delle tecnologie, vi era però senz’altro anche in nuce un’idea, valida tutt’oggi, di condivisione e di presa di possesso delle agevolazioni, delle informazioni, degli indubbi benefit che la stessa tecnologia poteva apportare alla vita quotidiana della gente, e non solo un’imposizione dall’alto, unidirezionale, da parte del potere politico o delle multinazionali, del sapere tecnologico. In questo senso, appaiono anticipatori e straordinariamente profetici, perché agivano, come fa sempre l’arte, non direttamente sulla vita ma sul piano del simbolico, esperimenti-pilota come quello di Inverosimile – installazione ambientale che ripeteva l’esperienza dei tappeti-natura ma in forma più estesa e interattiva, grazie al quale i visitatori, semplicemente muovendosi all’interno di una vigna artificiale creata dall’artista, ne faceva muovere i vitigni, “alberi”, li definì al tempo l’artista, “che potrebbero essere uomini bionici”; o, addirittura, con un progetto che non vide mai la luce perché troppo ambizioso e troppo costoso, Ixiana: sorta di immensa bambola-robot dal corpo vuoto, nel quale il visitatore poteva e doveva entrare, per viverlo come un habitat tecnologico dalla forma umana: “un viaggio in una selva elettronica che lo smarrirà nell’immateriale entro un corpo bambino”, lo definirà il critico Tommaso Trini, che seguì a lungo il lavoro dell’artista torinese.

Piero Gilardi, Vestito Natura Sassi  (1967), performance al Van Abbemuseum, a cura di Diana Franssen, Eindhoven, settembre 2012. Foto Peter Cox.

È qui, in queste “macchine intelligenti” che questo artista-profeta immaginò quando ancora non si intravedeva ancora all’orizzonte il luccichìo dei moderni sviluppi dell’Intelligenza Artificiale, che la concezione utopistica, e insieme immaginifica e sensuale della sua natura ricostruita, della sua interazione tra mente umana e labirinto tecnologico delle reti neuronali artificiali trova la sua più piena espressione: “il cambiamento che stiamo vivendo”, disse l’artista nel 1999, “è un cambiamento di visione del mondo e di nostra collocazione nel mondo, che sta prendendo negli ultimi anni direzioni inaspettate. Si tende a pensare che la società dell’informazione sia una sorta di orgia dell’artificialità, una fuga in una dimensione virtuale magari già codificata. Non è così. Bisogna riconoscere che il computer e le tecnologie informatiche hanno cambiato la produzione e i rapporti sociali, che si è creata una simbiosi tra l’uomo e le macchine intelligenti. Sta cambiando la dimensione complessiva del nostro vivere, ma il fatto di essere ormai dei cyborg non significa che siamo degli automi, degli esseri alienati. In quanto uomini abbiamo sempre saputo entrare nel mondo dei codici senza spegnere il desiderio, la sensorialità, le nostre pulsioni profonde… non sappiamo ancora come autodefinirci in questa crisi d’identità che viviamo, ma ciò che preme è l’emergere del flusso della vita che è in noi e che deve farci superare i limiti egoici per riconoscere questa energia che ci pone in relazione con tutti gli esseri viventi”. Se non è utopia questa…

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