Scarpitta a Roma, provaci ancora SAL

Roma, 1958, Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis: un artista italoamericano di nome Salvatore Scarpitta espone quadri rivestiti da fasce di tela, sorta di bende che mummificano l’opera in un sistema di traiettorie informali che azzera la pittura materica per esaltare il poverismo ascetico della garza. Il periodo è quello propulsivo delle astrazioni liberate, da Burri a Vedova, da Afro a Santomaso; la catarsi comune è una risonanza che giunge dagli orrori in guerra, da ferite e lacerazioni che gli artisti portano nella metafora del gesto, del taglio, della bruciatura… o, come nel caso di Scarpitta, della benda che ferma l’emorragia, placa momentaneamente il dolore, lascia rimarginare ferite indelebili

Ritratto di Salvatore Scarpitta.

Scarpitta nasce (1919) e muore (2007) a New York: in mezzo una vita di viaggi e avventure umane, tra quella Roma lacerata del Dopoguerra e la New York verticale di Leo Castelli, il gallerista leggendario che lo mette sul palcoscenico di Manhattan con una personale miliare nel gennaio 1959. Castelli e Scarpitta: due esuli che s’incontrano nella città del futuro, due visioni che s’incrociano nel punto in cui l’informale si sta trasformando nel suo gemello figurativo, incarnato da quel Robert Rauschenberg che imprime materia espressiva sulle tracce urbane, sopra oggetti riciclati, verso direzioni che cinque anni dopo, nella fatidica Biennale del 1964, vedranno il linguaggio Pop al centro di una rivoluzione dello sguardo moderno.

SAL (a cura di Luigi Sansone) è la prima retrospettiva che Roma dedica all’opera completa di Scarpitta. Il paradosso è che accada in una galleria privata (complimenti a Mattia De Luca) mentre le istituzioni, concentrate sulle idee della politica e non sulla politica delle idee, si dimenticano tanti nomi lungo il cammino pedagogico. Le opere esposte non sono molte ma si tratta di una congrega di soli capolavori, rimbalzando da piccole tele garzate a due sculture sublimi: Sal’s Red Hauler Special, la vettura rossa da corsa ormai nel mito da museo, dedicata al figlio di Leo Castelli; Incident at Castelli, un’installazione alla Cronenberg che connette la compressione di una lamiera d’automobile e un pannello di vari incidenti in stile warholiano. 

Sal’s Red Hauler Special, 1966–1967, cm 111.8×274.3×123.2

Scarpitta è stato l’artista della velocità come brivido futurista indossabile, catarsi cinetica come sfida al conformismo della società operosa ma lenta e “sicura”; al contempo è stato l’artista dello sguardo sulle origini comuni, con un occhio verso la povertà italiana del neorealismo zavattiniano e un altro verso la cultura nativa americana. Le slitte da ghiaccio si affiancano alle lamiere d’automobile: due mezzi di spostamento, due archetipi tra nomadismi e migrazioni, due momenti che si raggelano nella forma di una nuova scultura poverista e archetipica. Possiamo dirlo senza remore: Salvatore Scarpitta, assieme a Pino Pascali, traccia le fondamenta da cui sarebbe nata l’Arte Povera di Germano Celant, cogliendo istanze etiche e valenze universali che pochi artisti hanno centrato con pari energia a rilascio prolungato. 

Incident at Castelli, 1987, 8 fotografie in bianco e nero, 1 fotografia a colori e rottami d’auto; fotografie: cm 220×294.6; rottami d’auto: cm 202.6×170.2×65.1

Ogni opera resta tuttora originale poiché contiene sempre l’origine in purezza. Scarpitta ha raccolto la tracce di un’archeologia nomade, quei segni fondativi che non diventano mondani, i simboli arcaici che possiedono una funzione comunitaria. L’opera come comparto energetico e alchemico, segno sciamanico di un fare artigianale, impreciso, sporco come le garze che hanno assorbito sudore e sangue, come le lamiere che si sono accartocciate dopo un crash, come le slitte che attendono un nuovo passeggero con gli occhi verso l’orizzonte degli eventi.

Sono opere che colgono quel fatidico “out of joint” shakesperiano, un tempo fuori da propri cardini che le rende perennemente inattuali, quindi sempre contemporanee a se stesse e alla densità di uno sguardo rivelatorio. Sono gli artisti come Scarpitta che tracciano le radici significanti, asciugando l’opera da qualsiasi aggettivo superfluo, lasciando lo scheletro che regge i corpi muscolari dei nostri sguardi illimitati. 

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