Aura Pasa: la voce ribelle nel silenzio del lager di Bolzano

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L’omaggio alla staffetta partigiana alla Casa della Memoria di Milano fino al 25 febbraio 2024

Con filastrocche e disegni ha contribuito a far luce su uno degli episodi più bui della nostra storia: l’apertura, tra l’estate del 1944 e la primavera del 1945, del campo di transito di Bolzano da parte delle SS. Nonostante fosse il principale luogo di detenzione e tortura nazista in Italia, assieme alla Risiera di San Sabba, è stato oggetto di un’autentica rimozione nella memoria collettiva fin dai mesi successivi alla liberazione. Nei primi Anni Sessanta, al posto delle baracche e delle celle che videro detenuti più di 11.000 donne, uomini e bambini, vennero costruiti degli edifici residenziali. Per leggere le prime ricerche sull’argomento bisognerà aspettare il decennio successivo, ma ancora nel 1980 molti abitanti della zona non avevano memoria di quanto fosse accaduto in città. Oggi rimane solo un muro di cinta di quello che era il campo, un’ex hangar usato in precedenza dal Genio Militare e poi trasformato in lager, all’altezza di Via Resia.

Aura Pasa

É coperto dall’installazione “Passaggio della Memoria” riportante i nomi di tutti i detenuti, in maggioranza prigionieri politici. Da allora sono stati condotti molti approfondimenti storici che hanno permesso di stabilire che 3.500 persone furono poi deportate oltre il Brennero, soprattutto a Mauthausen. Per quelli rimasti le condizioni di vita non erano migliori: è stato calcolato che a Bolzano ogni quattro giorni venisse ucciso un prigioniero. Aurelia Pasa vi viene rinchiusa con l’accusa di essere antifascista, antitedesca e staffetta partigiana nell’ottobre del 1944: a consegnarla alle SS è una spia infiltratasi tra i partigiani. Nata nel 1907 a Mel, in provincia di Belluno, la donna aveva seguito in giovane età il padre Attilio, scrittore, professore e ispettore capo delle scuole, a Verona. Si era diplomata alla Reale Accademia delle Belle Arti di Venezia, iniziando a insegnare disegno. Scelse poi di supportare il fratello Angelo partigiano, entrando a far parte del Battaglione Montanari e poi della Divisione Pasubio. 

Nel campo di Bolzano vi rimarrà fino al 29 aprile 1945 auto attribuendosi un curioso soprannome, quello di menestrella. Nei giorni di prigionia riempì, infatti, numerosi taccuini di disegni e filastrocche che raccontano i tempi, l’organizzazione, la vita e le relazioni all’interno del campo: una testimonianza dettagliata di quel drammatico contesto trasmessaci con il linguaggio dell’arte ed il desiderio di infondere volontà di resistenza e forza interiore. In un clima caratterizzato da violenza e morte, Aura Pasa utilizza lo strumento dell’ironia per cercare di esorcizzare un destino in cui i prigionieri sono ridotti a numeri. Del resto, si faceva chiamare Aura, diminutivo sì di Aurelia, ma in lingua italiano anche sinonimo poetico di “aria”. Quella stessa aria che i carcerieri tentavo di rendere soffocante con soprusi di ogni genere, ma che la donna ritrovava sulla carta ricordando spesso, come appare in suo schizzo, che al di là dei muri i prati continuavano ad essere verdi. Per rappresentare l’estenuante sensazione di essere sottoposti ad una continua roulette russa, dove la vita di ciascuno poteva essere spezzata per pura fatalità, Aura sceglie una margherita: alla domanda “Uscirò di qui?” corrispondono diversi petali per il sì e altrettanti per il no.

Nasce così la mostra “Menestrella nel Lager – Disegni e Filastrocche di Aura Pasa” che, prima di essere esposta alla Casa della Memoria di Milano, è stata ospitata in molte città italiane. Progettata e realizzata dall’Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti, oltre ad ampi estratti dei taccuini di Aura, presenta oggetti, documenti originali e video, offrendo uno sguardo completo sulla “fisicità” di quei giorni drammatici. 

Nonostante la speranza e lo spirito di sopravvivenza non l’abbiano mai abbandonata, una volta uscita dal lager Aura non vorrà parlare più della sua dolorosa e sconvolgente esperienza. A farlo saranno i suoi disegni pubblicati una prima volta trentasette anni dopo la liberazione: nel 1982 grazie all’intervento del cognato Giovanni Dean, noto professore e antifascista veronese.

L’arte può sì essere salvifica, ma di fronte alle aberrazioni più bieche dell’essere umano non può fare a meno anch’essa di cedere al dolore.

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