Georgia O’Keeffe, tensione e sospensione tra la vastità del cielo e la fine di una vita

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Come parti organiche diverse, unite insieme e scomposte da microrganismi, creano fertilizzante per i terreni, così le nostre relazioni con l’esterno e l’altro da noi, possono generare luoghi umidi per accogliere cambiamenti.

La pittrice americana Georgia O’Keeffe (Stati Uniti, 1887 – 1986), descrive il suo lavoro come un modo per rendere giustizia a piccoli dettagli, che ingrandisce per amplificare la loro influenza e renderli ben visibili. Così nei suoi grandi dipinti raffiguranti fiori dai colori pastello e avvolgenti, pone una lente di ingrandimento su organismi viventi e relativamente piccoli, ritenuti di poco conto o guardati in modo superficiale.

Accettando la sfida di dover sfatare ogni tipo di lettura erotica o sessista nei confronti delle forme floreali dipinte, che spesso i critici attribuivano alle sue opere, alimentando un tipo di interesse nella figura dell’artista del tutto estraneo all’originaria natura, rendendola portatrice di significati storpiati rispetto alla realtà, e associata a fenomeni purtroppo ancora attuali.

Georgia O’Keeffe, Grey Lines with Black, Blue and Yellow, 1923 (Georgia O’Keeffe Museum)

“Voi scrivete sui miei fiori come se io vedessi e pensassi le stesse cose che voi vedete e pensate dei fiori. Ma non è affatto così.”

Il vero intento era quello di rendere soggetto ciò che solitamente è sfondo o dettaglio. Ma oltre a meravigliosi fiori delicati, curvilinei e densi di colore, nella pittura di O’Keeffe troviamo paesaggi caratteristici dei momenti della sua vita, repentine e scandagliate rappresentazioni che si alternano tra visioni del micro e visioni di grandi paesaggi. Dai grattacieli newyorkesi, che con non poca difficoltà divennero poi conosciuti; il clima maschilista dell’epoca riteneva una donna, già in partenza, impossibilitata nell’impresa di poter riuscire a ritrarre New York, che invece superò alla grande sfatando ogni pregiudizio –“il mio grande quadro di New York fu venduto il primo pomeriggio all’apertura della mostra. Da allora nessuno ebbe più niente da ridire sul fatto che io dipingessi New York” – passando per le colline del New Messico, dove si misurò con le alture del Luogo Nero che rappresentarono per molto tempo un territorio sicuro, affascinante e magnetico che l’artista non riusciva ad abbandonare, nonostante i pericoli, dati dalle strade tortuose e dagli animali che lo abitavano.

Georgia O’Keeffe by Rufus Holsinger, 1915 (Albert & Shirley Small Special Collections Library)

Tra fiori e paesaggi, troviamo in O’Keeffe intense scene oniriche, sognanti e surreali in cui diventano protagoniste delle ossa di animali. Durante gli anni Quaranta vivendo in New Mexico e passeggiando tra le montagne iniziò a raccogliere ossa di animali, che decoravano il paesaggio sotto il sole cocente. Tra queste, ricorrenti sono le ossa dei bacini animali che l’artista inizia a cercare nei suoi ricordi e a individuarle come oggetti che spesso restano nei pressi delle case di campagna, senza che nessuno le tolga.

I bacini in particolare avevano forme che bene si prestavano a ragionare sulle aperture, sui vuoti e gli spazi che le loro conformazioni generavano. Nei dipinti le ossa spesso fluttuano metafisicamente in cieli azzurri, lei stessa racconta che cogliendo le ossa, le volgeva verso il cielo, e così la luce le attraversava e al contempo diventavano cornici per il blu celeste, si esaltavano l’un l’altra finché la percezione della terra non diventava sempre meno presente.

Così ossa e cieli diventano equivalenti, la fine di una vita fa da cornice e cannocchiale a un’entità vastissima e colma di vitalità, si percepiscono tensione e sospensione. Ed è incredibile come ancora una volta questi dipinti siano stati spesso interpretati erroneamente, come simboli di morte, quando invece le dichiarazioni dell’artista esprimevano la volontà di voler ritrarre il deserto, e le ossa diventavano l’unico segno di vita che spiccava intenso tra le distese desertiche, e Georgia era sicura che questo sfuggisse solo a chi il deserto non l’aveva mai vissuto.

Il susseguirsi di fraintendimenti dimostra proprio l’importanza dell’analisi del contesto-ambiente che sarà sempre una costante da tenere in considerazione, e la storia da artista fraintesa e dalla poetica usurpata da una critica incapace di andare oltre, in qualche modo si rifà in maniera parallela allo sfruttamento di quegli stessi elementi che O’Keeffe raffigurava proprio per rendergli giustizia. Una giustizia che non è solo gesto estetico, nell’incorniciare con delle ossa ciò che di più distante da noi possiamo osservare – il cielo – ma è un gesto coraggioso, che ridimensiona e circonda qualcosa di inafferrabile.

In campo scientifico un gesto simile e contrario avvenne negli anni Sessanta quando lo scienziato James Lovelock (Regno Unito, 1919-2022) influenzato dalle missioni spaziali che mostrarono la Terra vista da una prospettiva esterna e non interna, iniziò a ragionare sulla visione del nostro pianeta sospeso nello spazio in tutta la sua interezza, dai colori blu dell’acqua, verde della vegetazione e bianco delle nuvole, simboli di vita ed entropia e che ritroviamo chiaramente nei dipinti di O’Keeffe.

Georgia O’Keeffe, Red Canna, 1924 (Georgia O’Keeffe Museum)

Osservare il globo per intero, fu centrale per Lovelock che insieme alla biologa Lynn Margulis (Stati Uniti, 1938-2011) nel 1979 teorizzarono l’esistenza di Gaia, cioè

“il denso insieme di relazioni che connette tutto ciò che le discipline scientifiche hanno l’abitudine di trattare separatamente: i viventi, gli oceani, l’atmosfera, il clima, i suoli più o meno fertili.”

Gaia è ritenuta come un vasto essere che nella sua completezza riesce a mantenere il nostro pianeta Terra confortevole e adatto alla vita, l’umanità e tutti gli altri esseri viventi ne sono gli abitanti e insieme i suoi partner.

“Alla Terra che si muove di Galileo bisognava aggiungere la Terra che si commuove di Lovelock”

Il nome Gaia è ripreso dalla cultura dei Greci ed è il termine che lo scienziato usa come emblema della sua ipotesi, che si basa sulla visione della biosfera come un’entità autoregolata, che regola l’ambiente in modo chimico e fisico in modo da mantenersi in vita.5 E qui entra poi in gioco il concetto di entropia, che Lovelock usa per distinguere un pianeta brulicante di vita, da uno che non lo è.

L’entropia come concetto possiamo intenderlo un po’ come una condizione di disordine e può essere ritenuta come segno e sinonimo di vita.

Tutti i suoi abitanti a partire dai microbi hanno un’influenza su Gaia, grazie a Lovelock e Margulis, questi nuovi personaggi per noi invisibili vengono inseriti come soggetti attivi all’interno della Terra, capaci di attuare cambiamenti. Quindi Gaia è un sistema ma non è una sola, è un organismo ma è composta da altri organismi. Tutti i viventi sono parte dell’entropia di Gaia, del disordine, non di un essere materno e protettivo.

Così come le ossa animali lasciate tra le dune desertiche possono sembrare simbolo di disordine e fine, in realtà rappresentano visivamente quella presenza di vita che in quel momento appare ingannevolmente invisibile, e che con astuzia Georgia O’Keeffe associa alla vastità del cielo.

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