New York a Venezia. Viaggio tra due mondi nella nuova mostra di Ikona Photo Gallery

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New York a Venezia. Un viaggio nel tempo dagli anni’30 agli anni’50 del Novecento ci porta nella mostra New York New York presso Ikona Photo Gallery. All’interno di questo spazio di nude pareti di mattoni rossi e salsedine calcificata sono esposti otto tra i più grandi nomi della fotografia mondiale: Berenice Abbott, Margaret Bourke-White, Ilse Bing, René Burri, Andreas Feininger, Dorothea Lange, Francesca Woodman e un anonimo fotografo. New York affaccia sul mare, una grande mole di edifici dà il benvenuto a chi giunge per nave verso la città, identificando con una piccola porzione urbana un intero continente e una cultura, quella occidentale. L’approdo di queste persone in città è considerato nell’immaginario romantico collettivo un vagabondare di scarpe sdrucite alla ricerca di una condizione migliore. 

Ciò che lega New York e Venezia in questa mostra è il tema del viaggio, un simbolo costituito dalla necessità di trovare o esprimere liberamente la propria identità, contro le minacce derivanti dalle discriminazioni e gli esili. Anche Ikona Photo Gallery è un approdo per questa diaspora. La galleria è uno spazio sperimentale e aperto a progetti culturali che riguardano il suolo veneziano, il cui punto fermo è la fotografia. Živa Kraus, artista e gallerista, ha deciso di donare alla penisola italiana la sua prima galleria specializzata in fotografia. Nata a Zagabria, si trasferisce giovanissima a Venezia dopo aver studiato pittura all’Accademia di Belle Arti della sua città natale. Continua gli studi di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti della laguna e diventa assistente del pittore Emilio Vedova. Successivamente viene chiamata da Peggy Guggenheim per lavorare all’interno della sua collezione. Cura il catalogo della Biennale d’arte del 1978 e nel 1979 fonda Ikona Photo Gallery, la sua creatura, coltivata e alimentata negli anni da molte collaborazioni con artisti e fotografi provenienti da tutto il mondo. La fotografia è un’arte assoluta, presentata in tutte le sue sfaccettature.

Anonimo, Untitled, c. 1940

Per questa mostra, a cui Živa ha lavorato per più di un anno organizzandone i vari aspetti, sono stati chiamati a scrivere sia Carole Naggar, per raccontare la storia della fotografia attraverso le immagini esposte, sia un collezionista che si definisce Anonimo veneziano, personaggio chiave dell’esposizione in quanto la mostra nasce proprio dalla sua collezione. La fotografia è sempre rilevante, spiega Živa, poiché dietro di essa si nasconde l’opera omnia degli autori esposti, in certi casi veri e propri eroi ed eroine. Berenice Abbott, ad esempio, è la fotografa che incarna nella mostra il senso di vorticoso cambiamento della città di New York; ne documenta le fasi intermedie di sviluppo, dal centro cittadino dotato di negozi alimentari alla megalopoli che è illuminata di notte dalle luci tremolanti dell’Empire State Building. Ciò che queste immagini mostrano è uno spaccato del quotidiano che diventa assoluto, parte del mondo dell’arte: la storia della fotografia viene raccontata in “pochissimi” scatti significativi, il medium fotografico è strumento per parlare di quegli anni che, dalla Guerra di Spagna al Maccartismo, contribuiscono allo sdoganamento della fotografia come mezzo di emancipazione femminile sul modello della “New Woman” della Nuova Oggettività. 

Il punto di arrivo di un viaggio riguarda l’incontro di noi con l’altro; la fotografia è per Živa Kraus un incontro che rivela qualcosa del mondo e dell’uomo. Andreas Feininger era di questa opinione: fotografo interessato ai meccanismi tecnici del medium, si dedica alla rappresentazione della “still life” newyorkese, in cui il senso della vista prende il sopravvento e mette in luce dettagli e scorci della rappresentazione grazie all’ibridazione uomo-macchina. Suo in mostra è lo skyline di New York. Il punto di partenza di questo viaggio potrebbe lasciare, comunque, disorientati: la piccola fotografia, ritratto di un’ombra, che troviamo nascosta dietro le arcate della galleria, di un anonimo fotografo. Questa immagine, una “madeleine” per l’Anonimo veneziano che rievoca la zia scomparsa, rimanda al mito in cui si racconta l’origine del disegno: una donna, per non dimenticare l’amato in partenza – e di nuovo il viaggio è il motore di tutte le cose, avrebbe disegnato la sagoma della sua ombra. L’anonima immagine incipitaria introduce il nitido ritratto di Pablo Picasso, che con New York intrattiene rapporti artistici, esponendovi regolarmente le sue opere, eseguito da René Burri. Picasso è un signore distinto, con cappello di paglia e vestiti della domenica che partecipa a una corrida a Nîmes, in Francia, e viene catturato in questo contesto da uno dei suoi ammiratori. New York è anche i personaggi che la “abitano” in qualche modo: è proprio grazie a loro che può vantarsi di essere un centro culturale a cielo aperto. Lo spazio dell’esposizione, man mano che si osserva l’allestimento, è un vero e proprio caffè artistico in cui le fotografie dialogano secondo varie interrelazioni, mantenendo intatta la loro identità.

Dorothea Lange. Clouds, Utah, c. 1938

Osserviamo, inoltre, lo sviluppo tecnologico che ha reso possibile la realizzazione di queste immagini. Non sarebbe stato semplice, senza le macchine fotografiche portatili e gli zoom, realizzare scatti dall’alto con così tanta precisione, come nel caso di Margaret Bourke-White con Looking Down on West 36th Street in the Garment Center, New York City: tanti cappelli e cappotti in movimento, in scatti fedeli ai dettami della Straight Photography. Anche questa immagine viene interpretata come un mistero irrisolto, collegandosi all’anonimato della prima fotografia: non è possibile capire quale sia l’identità degli uomini ritratti. Tuttavia, è proprio l’assenza di individualità che, a mio avviso, dà forza storica all’immagine: la massa che si sposta uniforme nella scacchiera della vita. 

Bourke-White è anche colei che mette a nudo la miseria dei mezzadri del “Deep South” andando contro ai regolamenti imposti dalle agenzie di comunicazione. La “Nuova Donna” del XX secolo è indipendente, cerca una possibilità di cambiamento radicale all’interno della società e vuole farne parte, per questo viaggia, documenta, studia e approfondisce. Anche Dorothea Lange fotografa la Grande Depressione pubblicandone i lati meno poetici e più cruentemente reali, denunciando le ingiustizie dei poteri in carica. Negli anni 40 queste figure singolari diventano un punto di riferimento per numerose riviste, arrivando al punto di veder fagocitata la loro indipendenza. Veri e propri auctores, veicolano con i loro scatti l’immagine di New York nel pieno del cambiamento e dell’innovazione. Contraltare precario di questa narrazione è quanto documentato da Lange nei tre mesi passati in varie comunità rurali di Mormoni dello Utah: tentare di resistere ai cambiamenti che incalzano anche le aree più remote è uno degli aspetti del viaggio verso un nuovo mondo. Clouds, Utah contrasta con i paesaggi urbani e umani dell’intera esposizione, eppure, è anche estremamente necessaria: la sua presenza risveglia l’osservatore dall’oblio della frenetica vita cittadina, i cui bagliori e le cui forme ritmiche e sincopate di edifici e abitanti, lo portano verso una visione d’insieme quasi omologata. 

In Ilse Bing il disorientamento la fa da padrone. Spider Lily è una natura morta, in cui viene portato in primo piano un vaso con un fiore apparentemente secco, i cui riflessi dati dalla luce del sole creano riverberi e giochi luminosi sul muro che fanno sconfinare il primo piano e lo sfondo, rendendo l’immagine piatta e significativa per ogni suo elemento. In realtà stiamo osservando la rappresentazione di un fiore scarlatto, utilizzato in Asia, scrive Carole Naggar, per augurare buon viaggio a coloro che partivano considerando il percorso un ciclo che dalla morte, la partenza, portava alla rinascita in un altro luogo. La Bing, insieme a Feininger e Francesca Woodman, è la fotografa che porta in mostra l’attenzione dello spettatore verso il dettaglio; quest’ultima, ci offre la possibilità di studiare le forme interiori di un’artista che, attraverso il corpo, la nudità e la tradizione artistica italiana, tenta di creare piccole sceneggiature con cui comunicare messaggi allo spettatore. Qua non è la fotografa la modella di riferimento: la rappresentazione del corpo di un modello, l’immagine del nudo che entra in contatto, quasi, con la sfera di vetro che viene avvicinata alla schiena dalla mano che emerge sulla sinistra della rappresentazione ci lasciano in un limbo di identità. Sappiamo distinguere un uomo e una donna, ma non possiamo identificarli; i loro volti sono ai margini esterni, negati alla visione. 

Si può così concludere che questa mostra sia una vera e propria cosmogonia, una rappresentazione delle “cose della Natura” newyorkese che Živa Kraus ha deciso di declinare dal punto di vista umano, urbano e architettonico, quotidiano e, infine, con la fotografia di Lange, pseudo-universale, andando dal piccolo all’infinitamente grande, verso l’immisurabile massa evanescente delle nuvole, l’indefinibile identificazione dei corpi e la paradossale definizione dei particolari di un immenso agglomerato urbano qual è la città di New York. 

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