Obey a Milano, parla Shepard Farey: “L’arte? Un antidoto alla violenza. Ma anche la musica…”

È considerato, assieme a Banksy, probabilmente l’artista più famoso al mondo proveniente dall’ambito della street art. Oggi, dopo essere passato dalla fama mondiale seguita alla sua reinterpretazione del volto di Obama nel manifesto-icona “Hope” per la campagna presidenziale del 2008, dopo aver subito decine e decine di cause civili e penali per affissione illegale e per altre violazioni relative alle sua attività artistica, dopo aver pubblicato decine di migliaia di stencil, poster, T-shirt e altri materiali con le sue immagini, commercializzate in tutto il mondo a basso costo (per scelta volontaria, in modo da dare la massima accessibilità a tutti, soprattutto ai più giovani), dopo aver combattuto ed essersi esposto per decine e decine di cause, da quelle più strettamente politiche (a favore di Obama per battere la candidatura di Trump o per l’immediato cessate il fuoco a Gaza in sostegno al popolo palestinese) a quelle più genericamente sociali e per i diritti civili (dalla battaglia contro gli OGM e contro la Monsanto, principale produttore mondiale di Ogm, combattuta a fianco del cantautore Neil Young, a quella per i diritti umani, contro il razzismo, o per la riforma del sistema carcerario); ebbene, dopo e nonostante tutto questo, Obay, al secolo Shepard Farey, è, e rimarrà sempre, soprattutto uno dei più grandi artisti contemporanei.

Un artista complesso, controverso, amatissimo da stuoli di giovani e di adolescenti e popolarissimo in tutto il mondo, che tuttavia è, ancora adesso, in bilico tra attivismo politico tout court e arte contemporanea, tra necessità di rimanere fedele alle idee e speranze della propria giovinezza, a cominciare dalla necessità di aprire l’arte a tutti a prezzi popolari, ed esigenze del mercato, tra arte pubblica, fruibile da tutti, e arte per i musei e per le gallerie, rivolta necessariamente a un pubblico più elitario e selezionato. La sua adesione a cause politiche e di sostegno diretto ad associazioni attive nella lotta per i diritti civili e politici (come Occupy Wall Street, Black Lives Matter, Women’s March, American Civil Liberties Union, Natural Resources Defense Council, etc.) gli hanno infatti attirato consensi, ma anche molte critiche e prese di distanza.

Oggi, con la grande mostra “OBEY: The Art of Shepard Fairey”, prima personale in Italia dell’artista (aperta dal 16 maggio al 27 ottobre 2024 negli spazi della Cattedrale presso la Fabbrica del Vapore di Milano), curata dallo stesso Obey con la galleria Wunderkammern e il gruppo Deodato in coproduzione con la Fabbrica del Vapore e con il supporto del Comune di Milano), l’artista offre al pubblico italiano, e milanese in particolare, uno spaccato a 360 gradi di oltre 35 anni della sua attività artistica. Divisa per sezioni, la mostra affronta i maggiori temi sui quali si è concentrato il lavoro dell’artista, dalla propaganda, alla pace e giustizia, all’ambiente fino alla musica: sono state infatti moltissime le collaborazioni con gruppi musicali anche molto celebri, dai Dead Kennedys ai Black Flag fino ai The Sex Pistols.

In questa intervista esclusiva, Shepard Farey racconta ai lettori di Artuu in che punto si sente della sua carriera di artista, ma anche cosa pensa dell’arte contemporanea, del suo impatto sulla società e sui giovani, del ruolo dell’artista e dell’arte pubblica. Con un occhio alla politica mondiale e a quella americana in particolare.

Shepard Fairey, tu oggi sei considerato uno dei più importanti artisti contemporanei, eppure mantieni ancora una fortissima attenzione verso le cause sociali e una pratica artistica “democratica”, con poster, oggetti e capi di abbigliamento a prezzi accessibili, rivolti soprattutto ai ragazzi. Credi che l’arte di oggi possa e debba essere “democratica”, popolare e alla portata di tutti?

Non voglio parlare per nessun altro, ma per me l’arte è molto di più che qualche immagine accattivante. Ha a che fare con il connettersi con l’umanità nel modo più profondo e più ampio possibile in una maniera accessibile. Non fraintendermi: adoro realizzare quadri in maniera lenta e meticolosa, ma per me è ancora più importante che il potere dell’arte sia accessibile ai più.

Che significato ha per te portare l’arte fuori dai contesti “ufficiali”, come musei e gallerie, per farla dilagare sui muri, nelle piazze e persino sui vestiti e sui prodotti di consumo?

Gallerie e musei tendono spesso a intimidire le persone, quindi l’arte pubblica, l’abbigliamento e i prodotti venduti a prezzi popolari sono il mio modo di connettermi col resto del mondo, che non è ha realmente a che fare col sistema dell’arte.

Vedi un cambiamento in questo senso rispetto alle generazioni precedenti di artisti? Credi che, grazie alla vostra generazione, anche l’arte “ufficiale” stia cambiando pelle, diventando meno elitaria e più popolare?

Io seguo le orme di artisti come Andy Warhol, Keith Haring, Barbara Kruger e Robbie Conal. Mi piace pensare di aver spinto ancora di più l’approccio di un artista come Haring, per fare in modo che la mia arte e i miei messaggi possano essere recepiti dal maggior numero di persone, e che queste possano anche permettersi di possedere almeno una parte delle cose che faccio. Spero che questo sviluppo continui, perché l’arte che mette insieme e coinvolge le persone è la cosa migliore per il mondo.

Ci puoi raccontare i tuoi esordi, che tipo di ragazzo eri, quali erano i tuoi sogni e il tuo background, come hai iniziato a dipingere in strada, e come mai sono entrati nel tuo linguaggio messaggi sociali e politici, a cominciare dalla scritta “Obey” che poi è diventato il tuo pseudonimo?

Ero un ragazzino un po’ timido, quindi passavo molto del mio tempo a disegnare da solo nella mia stanza. Avevo anche degli amici, ma mi piaceva così tanto fare arte che perdevo la concezione del tempo. Ero anche un ragazzino irrequieto e mi mettevo spesso nei guai, quindi lo scoperta dello skateboard e del punk rock, entrambi creativi e ribelli, mi ha permesso di unire in una miscela perfetta i due lati della mia personalità. Ho iniziato a realizzare artigianalmente magliette, stencil e adesivi quando ero ancora al liceo, ma è stato solo quando ho scoperto i graffiti di New York ai miei primi anni di college che ho pensato di cimentarmi con la street art. Sono stato influenzato, anche dal punto di vista politico, prima dal punk e dal reggae, poi dall’hip-hop. Quando ho iniziato a realizzare i miei adesivi, che sono diventati la campagna Obey, mi è sembrato naturale utilizzare le strade, dove un intervento è già di per sé un atto di rottura e ribellione, per diffondere messaggi sociali e politici. Ho iniziato con concetti più generici come la messa in discussione del principio di autorità e dell’obbedienza, ma col passare del tempo sono diventato più sicuro delle mie convinzioni su una varietà di argomenti sociali e politici.

Ti senti ancora legato all’adolescente che eri quando hai iniziato a disegnare per strada, ti rispecchi ancora nei sogni, nei pensieri e nelle speranze di quel ragazzo, e in che modo?

Mi sento senz’altro ancora molto legato a ciò che provavo e che pensavo da adolescente, in particolare riguardo a quel senso di speranza e di apertura a tutte le possibilità che mi è sempre appartenuto. Nel corso dei 35 anni in cui ho fatto arte, ho mantenuto quello spirito di speranza e di apertura, ma ora ho più consapevolezza, più esperienza e delle prospettive più ampie, il che mi permette di incanalare maggiormente e in modo più costruttivo la mia rabbia e i miei impulsi giovanili.

Tu sei stato uno dei pionieri della street art. Come si è evoluto il tuo lavoro nel corso del tempo, e come vedi oggi il presente e il futuro dell’arte pubblica rispetto al passato? C’è ancora spazio per una vera arte di strada, o anche questa, oggi, è stata inglobata dal messaggio pubblicitario?

Molti dei principi del mio lavoro rimangono gli stessi, ma ora dispongo di competenze e risorse tecniche più avanzate. Tuttavia, utilizzo ancora molti degli stessi approcci che mi hanno permesso di realizzare opere destinate alla strada con un budget limitato e di diffonderle in lungo e in largo. Una cosa importante nel modo in cui la mia pratica artistica si inserisce nell’ambito della street art è il modo in cui miei progetti possono funzionare come modelli di auto-consapevolezza. Sono sempre felice di condividere i miei segreti con altri artisti. Col tempo, la street art è diventata più popolare, offrendo agli artisti molte opportunità, ma anche la tentazione, per alcuni, di mettere il denaro o il successo al di sopra di ciò che inizialmente li aveva spinti a scendere in strada. Posso parlare solo per me stesso, ma io personalmente sono grato per le maggiori opportunità che oggi vengono offerte agli artisti. Io cerco di sfruttare queste opportunità per spingere sempre di più la mia arte e le mie idee, ma con gli stessi principi di base che mi hanno guidato fin dall’inizio. La pubblicità ha sempre fatto parte delle società capitaliste, e la street art spesso rappresenta un’alternativa alla pubblicità, perché non è guidata solo dalla logica del consumo. Tuttavia, so quanto sia difficile guadagnarsi da vivere esclusivamente come artista, quindi non so giudicare gli street artist che realizzano anche lavori pubblicitari per sopravvivere. Mi considero fortunato ad essere a un punto della mia carriera in cui non devo più occuparmi di pubblicità, a meno che non si tratti di un progetto che per me ha un significato filosofico.

Con la tua arte, sei spesso intervenuto su questioni e tematiche sociali, dal rifiuto della guerra allo sfruttamento dei lavoratori alla distruzione ambientale all’invadenza delle multinazionali fino alla campagna contro gli OGM. Quali sono le questioni che oggi ti stanno più a cuore, e in che modo continuerai ad affrontarle?

La pace è sempre stata un tema fondamentale per me, soprattutto in questo momento, e in particolare per quanto riguarda le guerre in Ucraina e Palestina. Queste sono ovviamente cose che non posso risolvere, ma il mio messaggio è sempre quello di trovare modi per vedere l’umanità in tutti e trovare soluzioni ai conflitti che non implichino la violenza. L’altra questione che mi sta molto a cuore è il cambiamento climatico e la salute dell’ambiente. Perseguire il profitto nell’immediato piuttosto che la salute futura del pianeta porterà a conseguenze disastrose. Tutti possiamo scegliere come spendere i nostri soldi, dando la priorità alla responsabilità ambientale. Possiamo anche votare per quei politici che inchioderanno alle loro responsabilità le multinazionali che stanno causando danni al pianeta.

Oggi il mondo sembra sempre più lanciato verso scenari di guerra, dall’Ucraina alla Palestina. Cosa pensi di questa situazione, e in che modo credi che l’arte possa ancora intervenire attivamente sulla politica mondiale?

Gli esseri umani di ogni paese e cultura hanno moltissimo in comune e l’arte può incoraggiare l’empatia e celebrare la connessione tra le persone in modi che scoraggiano la guerra. L’arte può anche toccare questioni specifiche relative alla guerra che potrebbero incoraggiare le persone a intraprendere una strada alternativa.

Fra pochi mesi si terranno di nuovo le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, e ancora una volta Donald Trump, con la sua narrazione populista, violenta e xenofoba, nonostante abbia alle spalle l’irresponsabile assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, rischia di tornare a essere eletto Presidente degli Stati Uniti. Come vedi questa situazione, che speranza credi ci sia di invertire la rotta e in che modo anche l’arte e la cultura possono influire sul voto?

Le idee di Trump in realtà non hanno l’appoggio della maggioranza degli americani, ma, sfortunatamente, un gran numero di loro non vota. Io mi sto impegnando con forza su diverse iniziative per incoraggiare le persone ad andare a votare. Sarebbe un disastro per gli Stati Uniti se Trump venisse rieletto. Ha parlato apertamente della sua agenda fascista, che paralizzerebbe la democrazia e comprometterebbe la vita di milioni di persone. Sto facendo tutto il possibile per evitare che venga rieletto.

Tu hai avuto sempre anche un rapporto molto stretto con la scena musicale, sei amico e compagno di strada di musicisti importanti, hai realizzato collaborazioni artistiche e copertine di dischi, tu stesso sei un DJ. Qual è oggi la musica che trovi più interessante, che evoluzione vedi nella scena musicale di oggi? Credi che la musica sia ancora importante anche per veicolare messaggi per le nuove generazioni?

Sono un grande fan della musica dagli anni Sessanta ad oggi. Penso che tutti sviluppino un legame speciale con la musica che ascoltavano quando, da adolescenti, stavano formando la propria personalità. Avrò sempre un fortissimo legame con il punk rock e con l’età d’oro dell’hip-hop. Ci sono un sacco di nuove band che mi piacciono, però. Gli Yard Act sono una band post-punk britannica con testi molto intelligenti, poi adoro i Wetleg, una band composta da due donne, anche loro inglesi. Sul fronte dell’hip-hop, c’è un gruppo chiamato Joey Valence e Bre, sono originari della Pennsylvania e suonano un po’ come i Beastie Boys, e ancora i Rage Against the Machine e i Tribe Called Quest. Gli Yeah Yeah Yeahs, che esistono dai primi anni Duemila, hanno fatto uscire un album fantastico l’anno scorso. La musica è un ottimo veicolo, perfetta sia come forma di svago che come critica sociale. Proprio come accade con l’arte visiva, non credo che tutta la musica debba avere una funzione sociale, ma a me entusiasma quando trovo cantanti o gruppi musicali che hanno il coraggio di dire qualcosa di significativo.

Fedele alla mission di rendere creatività, cultura e arte fruibili ad un pubblico ampio e trasversale all’interno del contesto urbano, Urban Vision Group esporrà sui suoi maxi impianti digitali di Milano una selezione di opere della tua mostra. Ci puoi anticipare che messaggi veicolerai in giro per la città?

Sono molto grato per l’opportunità che mi è stata offerta, di veicolare per le strade le mie immagini e i miei messaggi grazie ad un’idea di Urban Vision. Anche in questo caso, le immagini si concentreranno sugli stessi temi su cui è incentrata la mostra, come l’ambiente, la giustizia sociale, la musica e le nuove opere.

Grazie Shepard Fairey!

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