Shirin Neshat, a Fotografiska un grido contro la violenza

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Stoccolma d’inverno è una città fantastica. A febbraio il clima è decisamente freddo, ma piacevole. Il sole che ci sorride sui volti è accompagnato da una leggera ondata di neve, soffice, leggiadra, mentre un soffio di aria gelida ci sferza il viso. E proprio in questa città, sono andato, assieme a due amiche, a visitare forse il più celebre museo di fotografia del mondo, Fotografiska, fondato dai fratelli Jan e Per Broman nel 2010, che ogni anno ospita nelle diverse sale d’esposizione mostre di alcuni tra i migliori fotografi di tutto il mondo. Qui, dopo aver lasciato al guardaroba l’ammasso di giacche, sciarpe, guanti, cappelli, felpe e altro, ci siamo buttati nelle sale che ospitava una mostra che non avremmo voluto perderci: “The Fury”, che riunisce, fino al 18 febbraio, l’ultimo progetto dell’artista iraniana Shirin Neshat, già esposto a Londra nell’autunno scorso, durante Frieze 2023, e, nella sola parte video, come parte del London Film Festival 2023.

Classe 1957, Shirin Neshat è un’artista iraniana che da molti anni vive e lavora a New York. Per decenni, il vasto lavoro dell’artista si è concentrato, attraverso la fotografia in bianco e nero, sulle problematiche del corpo femminile e su come questo continui a essere uno spazio contestato per il peccato, la vergogna, la violenza, la repressione e allo stesso tempo la ribellione, il potere e la protesta. I lavori dell’artista sono stati esposti in numerose mostre in musei internazionali di tutto il mondo, tra cui la Tate Modern a Londra. L’artista ha inoltre ricevuto numerosi premi per i suoi film: ha vinto il Leone d’Oro alla 48a Biennale di Venezia nel 1999 e dieci anni dopo, nel 2009, Neshat ha diretto il suo primo lungometraggio, Women without men, vincendo il Leone d’Argento come miglior regista alla 66esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Quello esposto da Fotografiska è un lavoro recente, realizzato tra il 2022 e il 2023, nel quale l’artista ha rivolto la sua attenzione al Medio Oriente, affrontando il tema della violenza sessuale e della prigionia in Iran, ispirandosi al movimento WomanLife, Freedom, nel quale perse la vita la giovane attivista Mahsa Amini, prelevata dalla polizia religiosa iraniana perché non portava correttamente il velo, e in seguito morta nella stazione di polizia a seguito di probabili e mai accertati pestaggi da parte dei poliziotti.

Nella prima sala, un’intervista all’artista è molto utile per chiarire l’idea e l’origine delle opere che ritroveremo successivamente nelle sale adiacenti: in particolare, le diverse fotografie in bianco e nero, di grande formato, che riportano poesie, scritte a mano dalla stessa Neshat, del poeta iraniano Forough Farrokhzad, che ricoprono tutta la pelle dei soggetti; mentre su due schermi, allestiti uno di fronte all’altro, è proiettato un video lungo circa dieci minuti.

Gli scatti fotografici si focalizzano sul corpo femminile: corpi nudi di donne in piedi di diversi paesi, talvolta lacerati da lividi o imperfezioni e talvolta cicatrizzati dal parto, trasmettono un senso di bellezza, confidenza, dignità, orgoglio ma anche di vulnerabilità, traumi e dolore. “Ho lavorato con un’amica che non era un’agente di casting, e ha svolto il compito di reclutare donne di diverse generazioni, diverse taglie e diverse etnie. Volevo che si sentissero a proprio agio con il tema, perché è un argomento molto delicato. Quello che è successo è che sono arrivate queste donne, ho spiegato loro di sentirsi come se fossero a casa e che questo mio nuovo progetto è un argomento che riguarda le donne sia come oggetto di desiderio, ma anche come oggetto di violenza”, ha spiegato in un’intervista Shirin Neshat.

È un progetto che, come molti altri suoi lavori, risalta il potere e la forza di ogni singola donna e interroga e attira la nostra attenzione sul rapporto tra il maschile e il femminile, l’individuo e il collettivo e la presenza, sempre costante in tutto il mondo, del potere all’interno delle società patriarcali. 

“Vedo tutto sotto forma di dualità”, dice ancora l’artista. “Visivamente e concettualmente, tutto si basa su una certa nozione di opposti. Visivamente spesso in bianco e nero, il mio lavoro è realizzato nello stile del realismo magico, del surrealismo e dei sogni. Dal punto di vista tematico, le narrazioni sono sempre politicamente cariche e inquietanti, ma allo stesso tempo emotive, poetiche e belle”. L’installazione video, d’altro canto, si basa su un solo soggetto, una ragazza. Una giovane donna iraniana imprigionata dai soldati.

I due schermi appaiati ci mostrano due scene diverse: la prima è il mondo come appare visto dallo sguardo della ragazza; il secondo, invece, come il mondo la guarda. In un primo momento la troviamo danzante e impaurita sotto gli occhi di un gruppo di soldati, che la fissano in cerchio all’interno di una stanza vuota. Osservano la preda volteggiare, ballare, cadere e rialzarsi seminuda con i volti quasi agghiaccianti e assetati di un istinto primordiale e sessuale: è lei che osserva i predatori e i predatori che osservano lei. Poi una pausa. Uno sguardo, il suo e quello di uno dei soldati: lei nel primo schermo e lui nel secondo. 

Nella seconda metà del video troviamo la ragazza camminare in una via affollata di New York, ormai lontana dal paese che l’ha imprigionata, lontana dalle torture e dagli stupri subiti. Il ricordo le torna in mente: le persone che un attimo prima erano indaffarate nelle proprie occupazioni si ritrovano a guardare il corpo seminudo della ragazza, tremante e quasi barcollante in mezzo alla strada, come fosse riuscita solo in quel momento a sfuggire all’aggressione subita. Osservano la sua espressione, impaurita, disorientata, il suo corpo scosso dalla paura, dall’umiliazione, dal dolore. E ancora una volta: pausa. Ed ecco che quelli che prima erano persone inermi, giovani, mamme, lavoratori, iniziano a dimenarsi, a scaraventare oggetti in giro, a ballare, a urlare, fino ad accanirsi anche contro il vetro di una macchina. La folla si riunisce e la musica struggente accompagna tutto il loro atto folle, di ribellione, di rabbia, di protesta. 

L’artista ha spiegato in un’intervista che “questo film è stato girato nel giugno del 2022, dopo l’assassinio di Mahsa Amini. Tutte queste donne sono state imbottigliate per tutto questo tempo, ma il fatto è che Mahsa è stata uccisa solo perché dal velo spuntavano alcuni dei suoi capelli. A volte abbiamo bisogno che alle vittime venga ricordato quanto siamo arrabbiati per il razzismo, per l’ingiustizia, per l’ingiustizia economica, per l’ingiustizia politica. Ho girato questo, dove vivo, dove sono tutti immigrati, ispanici, africani e asiatici e gente della classe operaia. Questa è la mia comunità. I ballerini provengono dalle mie lezioni di danza e la coreografia è stata realizzata dalla mia insegnante di danza africana. Tutte loro hanno capito a cosa puntavo con questa idea. Ognuno di loro ha sofferto, ognuno di loro sta ancora affrontando problemi finanziari, razzismo, ingiustizie provenienti dal proprio paese d’origine o dalla cultura americana. C’è questo senso di solidarietà. Potremmo anche non parlare la stessa lingua, ma lì c’è amore. Non vivo più in Iran: ormai vivo a New York, e questa è la mia comunità”.

Per quanto riguarda l’accompagnamento sonoro, l’artista racconta come sia stato “improvvisato dal vivo sopra il film”: “originariamente”, spiega, “la colonna sonora era una canzone persiana, ma il testo è stato riscritto e può essere letto come se stessi parlando di libertà individuale o collettiva”. 

La mostra è bellissima e struggente, fa riflettere sulla condizione umana davanti all’odio, al potere, alla paura. Ma anche sulla speranza, sulla ribellione e sulla rabbia che ogni essere umano si porta dentro, e che in certi momenti riesce a portar fuori, liberandola come una scossa di energia, tornando a vivere con la gioia, la libertà e l’ebbrezza della ribellione, lo splendore della protesta finalmente liberata, in una folle danza che sembra farci tornare tutti a uno stato brado.

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