Asfissia! Un quadro di Morbelli. Un giallo nella Milano del 1800 (pt. 2)

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Nella puntata precedente, abbiamo raccontato la storia del quadro di Morbelli, Asfissia!, e dell’accoglienza ricevuta dalla critica. Ma ecco cosa vi si nascondeva dietro…

La soluzione nelle cronache dell’epoca

Rivedere oggi il quadro di Morbelli ci fa istintivamente andare con la mente alla scena di un romanzo gotico, a una di quelle stanze dove ci aspettiamo sia ambientata una storia narrata dalla penna di Sheridan Le Fanu o di Henry James, dove i dettagli, gli oggetti e persino le ombre sembrano celare la presenza di un fantasma, o di un oscuro segreto che all’improvviso trova la sua tragica soluzione.

Come fantasmi di un tempo lontanissimo e ormai scomparso sembrano ora i volti, i sogni, le speranze e le esistenze stesse di due giovani innamorati, che in una fredda sera di febbraio del 1884 vollero mettere fine alle loro esistenze in una stanza d’albergo a pochi passi dalla stazione centrale, a Milano.

Ecco, infatti, la soluzione del giallo, quello a cui Morbelli si ispirò, nel lontano 1884: non (come hanno pensato alcuni, e come si trova ovunque anche su Internet), prendendo spunto da una novella letteraria del tempo, e neppure, probabilmente, dalla celebre poesia di Baudelaire La mort des amants, uscita ne Les Fleurs du mal nel 1857, dove si canta la bellezza ultraterrena di una morte passionale e drammatica – circondata, non a caso, ancora una volta dai fiori: “Avremo letti pieni d’aromi leggeri,/e divani profondi come tombe,/e sparsi sulle mensole strani fiori,/per noi sbocciati sotto cieli più belli…”; poesia non ancora uscita a quel tempo in italiano (la prima edizione italiana dei “Fiori del Male” è del 1893), che tuttavia Morbelli poteva, sì, ben conoscere in edizione originale, ma il cui spunto sembra un po’ troppo generico per una descrizione così millimetricamente esatta e puntuale, da far pensare immediatamente alla scena di un “giallo”.

Angelo Morbelli, Meditazione, 1913.

No – la verità è difatti ben più semplice, e in qualche modo a più portata di mano. Non è che un piccolo fatto di cronaca, che meritò solo un breve trafiletto sui giornali milanesi dell’epoca, per poi sparire rapidamente dalle cronache, così com’era apparsa. Ma che, al giovane Morbelli, imbevuto, nonostante tutto, di cultura decadente e tardoromantica, suscitò evidentemente, come accade alle volte, il desiderio di trasporla in pittura, per immortalarla per sempre, nella sua tragica essenzialità.

Era la vicenda di due giovani amanti, innamorati perdutamente l’uno dell’altra, il cui amore, inviso alle rispettive famiglie (probabilmente per le differenze di status sociale che li dividevano), era destinato a non avere sviluppo. Ma loro, piuttosto che rinunciarvi, preferirono darsi la morte, dopo una notte e un giorno d’amore, di cibo, di vino, di veglia e di lunghe confessioni reciproche.

I nomi di quei giovani erano Adolfo Franzini, fino a pochi mesi prima sottotenente dei Lancieri di Montebello, e Gina Bignami, figlia del macellaio di corso Monforte, all’angolo di vicolo San Carlo. La loro vicenda è, senza ombra di dubbio, il modello a cui Morbelli si ispirò per comporre il suo capolavoro, pochi mesi dopo. La notizia del “tragico fatto di sangue”, come si diceva all’epoca, comparve infatti sui quotidiani milanesi la mattina del 19 febbraio 1884. “Dramma d’amore”, titola “La Perseverenza”, quotidiano milanese assai letto all’epoca. “All’Albergo Torino, fuori dalla barriera Principe Umberto, scendevano, lunedì mattina, una giovane coppia, a cui fu assegnata la stanza N.14 al secondo piano”. “Egli aveva vent’anni”, continua il giornale, “ella diciannove. Si conoscevano da quattro mesi soltanto, e già si amavano perdutamente, in guisa da esser risoluti a fuggire da casa loro, lasciare i genitori e procurarsi insieme la morte”. “Il Franzini amoreggiava da 4 mesi”, scrive quello stesso giorno il “Corriere della sera”, “con la Bigmani, bella ragazza, di forme abbondanti [“giunoniche”, le definirà un altro quotidiano], d’aspetto simpatico. Pare che alla loro unione, ormai necessaria, si frapponessero ostacoli insormontabili, sebbene il padre della Bignami non avesse negato il proprio consenso. La fanciulla aveva lasciato la casa paterna domenica notte alle due per seguire il suo Adolfo. Girellarono qualche ora per la città; poi saliti in un brougham [la tipica carrozza a cavalli ottocentesca, ndr] si fecero condurre all’Albergo Torino”.

Ecco, dunque, il luogo dove si svolgerà il dramma così minuziosamente descritto dal pittore: una stanza di un albergo milanese, non lussuoso, che dà sul piazzale della Stazione (da sottolineare, però, che non si tratta del luogo su cui sorge la Stazione attuale, costruita com’è noto successivamente, bensì della vecchia stazione Centrale di Milano, che si trovava all’altezza dell’attuale Piazza della Repubblica, e che fu poi demolita nel 1931).

Che si trattasse effettivamente di un albergo, lo si sapeva, se non altro dagli indizi lasciati dal Morbelli, dal suo accenno alle lettere lasciate “da impostare” e al pranzo ordinato a “un cameriere”. Oggi, però, conosciamo anche il suo nome: Albergo Torino. Un hotel, avverte il cronista, “frequentato in estate dai buoni ambrosiani che vogliono pranzare all’aria aperta”, e che tuttavia “offre durante il carnevale facile ricetto alle coppie amorose che smarriscono la via per andare a casa”.

Ed ecco allora spiegato anche il motivo per cui la coppia, rimasta a girovagare nella notte ormai prossima alla fine di una qualsiasi domenica milanese (quella che precede, appunto, la settimana del Carnevale), abbia scelto quell’albergo, frequentato “da coppie di passaggio”, dove non avrebbero fatto troppe formalità né preteso i documenti (è infatti da ricordare che i due non erano sposati, e che la ragazza, diciannovenne, a quell’epoca era ancora minorenne, dunque in un altro albergo, più formale, avrebbero potuto domandarle i documenti e, una volta constatatane la minore età, chiamare i regi carabinieri).

(Continua – 2)

La prima parte del racconto la trovate qua.

L’ultima e terza puntata la trovate qua.

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