Come acqua che sgorga: da Astuni cinque voci di donna

Getting your Trinity Audio player ready...

Cinque artiste, cinque generazioni e cinque modi diversissimi di esprimersi: da una pittura calda e germinante alla matericità del tessuto, da una scultura rutilante e inquieta alla performance fino al concettuale della parola ripensata. “L’altra sorgente”, da Astuni a partire dalla notte bianca bolognese del 3 febbraio fino al 4 maggio, raccoglie le opere della rumena Marion Baruch, della statunitense Suzanne Lacy, della brasiliana Maria Nepomuceno e delle italiane Sabrina Mezzaqui e Sabrina Casadei.

Non è facile in effetti raccogliere cinque voci così diverse e comporre una sinfonia armoniosa e congruente. La mostra ci riesce, scegliendo delle autrici pezzi preziosi, che ne hanno segnato la carriera e che dialogano tra loro senza stridere mai.

Marion Baruch, Romolo e Remo, 4 strati di seta, 138×146, 2023.

Classe 1929 – una splendente ultranovantenne – Baruch ha alle spalle la vita tumultuosa di chi ha attraversato un secolo, ha scavallato due guerre (da rumena di origini ebraiche), ha trovato pace in Italia e ha dato un senso al tutto riflettendo sulla materia e sul corpo. Quello della donna, naturalmente, imbrigliato dentro una gabbia di aspettative. Lo racconta senza mezzi termini in opere come Abito contenitore, all’inizio degli anni Settanta, ingabbiandosi in un involucro di stoffa e aggirandosi così per le vie di Milano (a metà tra la prigioniera di un burqa e le Femmes maison di Louise Bourgeois) e più avanti racchiudendo il corpo dentro forme geometriche. Poi, con gli anni, la materia si sfalda e Baruch arriva alle opere che porta in mostra a Bologna oggi: stoffe recuperate dai cicli industriali, salvate dallo scarto e trasformate in brandelli leggeri, evanescenti; arazzi che raccontano il reale in termini di pieni e di vuoti.

Suzanne Lacy, The Crystal Quilt.

È un’arte combattente, invece, quella di Lacy, classe 1945, femminista di lungo corso (ha lavorato con Judy Chicago) e attenta osservatrice della vita delle donne e degli abusi che queste hanno subito e continuano a subire. Con un approccio quasi giornalistico, anche, come quando nel 1977 nella performance Three weeks in may per tre settimane ogni mattina segna su una gigantesca mappa di Los Angeles con un timbro rosso tutti gli stupri denunciati (e, per ognuno, altri nove che evidenziano il sommerso), o come quando, nel 1974, con i Prostitution notes (una serie di interviste a professioniste e professionisti del sesso) scardina gli stereotipi sulla prostituzione. La mostra da Astuni sceglie di puntare su una delle sue indagini più significative: quella intorno al tabù della vecchiaia femminile. Ecco allora oggetti e foto della performance The crystal quilt, che nel 1985 vide coinvolte a Philadelphia quattrocento ultrasessantenni a ricostruire la trama di una trapunta tradizionale, mentre una traccia audio riproduceva le considerazioni di una settantina di donne anziane sul loro potenziale inutilizzato.

Maria Nepomuceno, Untitled, 2016.

Il rimpianto lascia il posto alla gioia carnale che pervade le installazioni della quarantaseienne Nepomuceno: corda, paglia, perline, ceramica e objet trouvé a sostanziare forme fluide e articolate; cerchi, spirali e tentacoli dall’aspetto fitomorfo o zoomorfo che si aggrovigliano in una natura altra, rigogliosa ma inquieta, dai colori al tempo stesso caramellosi e letali e che in mostra invadono lo spazio e si aggrappano alle pareti come rampicanti.

Una germinazione che sembra contagiarsi alla pittura di Casadei, la più giovane della squadra visto che non ha ancora quarant’anni. Nei suoi lavori infatti la materia si sfalda e si ricompone, si compatta e si squaglia, mettendoci di fronte a una sensazione di astratto che astratto non è, perché possiamo individuare, dietro la pennellata, cieli che si addensano di nuvole, tumulti naturali, gorghi acquatici e paludi ribollenti dentro un sottobosco da fiaba nera dei fratelli Grimm pronto a catturarci per sempre, incantati nell’oscillazione costante tra la grazia di Tiepolo e la furia di Pollock.

Sabrina Mezzaqui, C’è un tacito accordo tra le mie matite e gli alberi là fuori, 2022.

E infine tutto si acquieta nei sussurri di Mezzaqui, che qui a Bologna è nata, nel 1964. Leggerezza è la prima parola che viene alla mente davanti al suo lavoro delicato, lieve, fatto di parole che si sdoppiano nel ricamo o che svaniscono, di materiali effimeri come la carta, di piccoli gesti misurati. Ma poi, quando ci si entra, ci si accorge che si tratta di una leggerezza pesante, piena di significati che vanno raccolti scavando, scrutando i contorni e le ombre. In mostra ecco i disegni precisi e complessi come i nodi di un tappeto antico, segnati in punta di matita e poi parzialmente cancellati dalla gomma (C’è un tacito accordo tra le mie matite e gli alberi là fuori, 2022) e anche le letterine in plastica con cui giocano i bambini di Pratikramana, opera di quest’anno, tutte declinate nelle tinte neutre dei salvia, dei celesti e dei bruni, a cantare per noi una preghiera di pentimento e contrizione.

Peccato per l’altra del titolo. Bisognerebbe iniziare a parlare di donne senza per forza cadere nella trappola del diverso e dell’alterità.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Artuu consiglia

Iscriviti alla Artuu Newsletter

Il Meglio di Artuu

Ti potrebbero interessare

Seguici su Instagram ogni giorno