Il consumismo, l’omologazione e l’ironia di Martin Parr

Il Museo delle Culture di Milano dedica una mostra a Martin Parr, curata dall’artista stesso. “Short & Sweet”, in collaborazione con Magnum Photos, si presenta quale esposizione tagliente dei maggiori lavori dell’artista, con un corpus di immagini sezionate e differenziate a seconda di aree tematiche e ricerche documentariste portate avanti nel corso degli anni. Fino al 30 giugno 2024 è possibile dunque visitare e osservare da vicino il ritratto quasi caricaturale della società occidentale, in particolare europea, che Martin Parr pennella con un taglio estremamente critico e di radicale rottura. L’artista britannico dà avvio alla propria ricerca mediante l’utilizzo del bianco e nero, monopolio assoluto della fotografia reportage internazionale, in cui emerge già lo sguardo estremamente antropologico e umoristico (per citare Pirandello), dove il cibo, costante dell’opera dell’artista, diventa il catalizzatore di una riflessione più ampia legata alla ritualità del quotidiano.

L’approdo al colore, nella serie The Last Resort (1982-1985), che Martin Parr stesso definisce il suo lavoro più radicale, costituisce una spaccatura importante nella comprensione della poetica di questo straordinario fotografo. L’utilizzo del flash, che isola i personaggi e li discosta da una omogeneità di realtà portandoli ad un piano ulteriore di finzione, rappresenta un’istanza autoriale estremamente personale, dove l’interpretazione degli usi e costumi della working class viene circoscritta e presentata all’occhio dello spettatore allo stesso modo di un prodotto della mercificazione di massa. La ripresa del linguaggio pubblicitario, con i suoi colori accesi e i contrasti cromatici di luce, proietta le figure e i luoghi rappresentati in una dimensione quasi dissociativa, in cui il confine tra realtà e finzione è interscambiabile.

Umorismo tagliente, ironia di fondo nella scelta e modalità di scatto, dissacrazione della ritualità collettiva, sono tutte modalità grazie alle quali Martin Parr crea la propria fotografia, testimonianza fondamentale e rara del passaggio al consumismo che interessò tutti gli Stati europei legati all’egemonia culturale americana. In Small World (1989-2008) l’artista si focalizza sul turismo di massa, esplorando il tema del viaggio capitalizzato, svolto unicamente per un fine superficiale. Emergono le grandi tematiche che oggigiorno rappresentano il principale dibattitto dell’opposizione al potere costituito: omologazione, evidente sia nel cambiamento d’abito sia nel cibo, il sogno americano espanso a macchia d’olio in tutto il globo, l’ossessione per il possesso che Martin Parr circoscrive con la grande attenzione e cura che dedica al dettaglio. Particolarmente interessante è l’installazione-serie Common Sense, pubblicata nel 1999.

L’artista crea una struttura con oltre 200 fotografie in grado di impattare enormemente sul singolo. La realtà plastificata, pacchiana, consumistica, assurda e volgare emerge nella sua radicale contraddizione: una sorta di repulsione e fascinazione nasce da quest’opera. Una pornografia del visivo è in atto: l’eccesso e il bombardamento figurativo mescolano e scambiano fra loro le figure e gli oggetti presentati, il tutto si gioca in un ossimoro di colore e luce, il grottesco serializzato induce alla riflessione sul sé e sulla società. In Life’s a Beach (1986-2018) emerge il grande interesse che Martin Parr rivolge alla spiaggia, quale luogo di svago presente in numerose culture del globo e di cui documenta le differenti pratiche.

L’artista si concentra e dà ampio spazio alla riflessione sulle nuove tecnologie, come nel caso della serie dedicata ai selfie, in cui emerge la dissociazione identitaria dell’uomo-macchina, il quale non è più in grado di scindere il proprio sé dall’apparato di cui è vittima. La fotografia di Parr è estranea, aliena la “scena” creando un disagio per la proiezione esterna al proprio essere che è in grado di catturare. Martin Parr è l’artefice di un ventaglio rappresentativo di figure, riti, pratiche quotidiane, prediligendo una fotografia-reportage non narrativa, quanto più frammentaria, grazie alla quale l’individuo viene strappato violentemente dall’omologazione consumistica di cui è parte. Lo specchio-opera interroga su quanto di autentico ci sia nelle nostre scelte di vita, personali e collettive. Il teatro-marionetta di Parr, di cui siamo spettatori-attori attivi, provoca riso e disperazione, presentandosi quale tentativo di indagine riuscito della surmodernità.

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