Sara Forte, Stardust. A Galleria Vik grazia concettuale e suggestioni pop

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L’arte contemporanea dell’ultima generazione si sta riavvicinando con cautela all’astratto, e quando lo fa sceglie per lo più un linguaggio lirico, gestuale, una sorta di neoromanticismo dentro il quale si leggono quasi sempre tenui tracce di narrazione. Con le sue linee dritte, le forme taglienti, i cerchi, i cartigli fluttuanti e il suo alfabeto segnico oramai riconoscibile come quello di un Capogrossi, Sara Forte rappresenta una piacevole eccezione: il coraggio di una scelta netta che si impone allo sguardo negli equilibri geometrici e nei cromatismi densi, pastosi, a tratti quasi pop (i prugna carichi, i rossi infuocati, i gialli e gli aranci polposi) e a tratti con una decisa allusione all’arte programmata nelle partiture dei bianchi e dei neri.

Da oggi fino al 6 marzo, la Galleria Vik Milano (hotel-galleria d’arte che si affaccia su Galleria Vittorio Emanuele, ndr) ospita la sua personale Stardust: selezione di dipinti e sculture recenti. La sensazione dominante è quella di un ordine superiore, una sorta di equilibrio ancestrale che pur essendo esplicitamente del tutto contemporaneo, risuona suggestioni che vanno dal rigore del Movimento Arte Concreta al costruttivismo di Rodčenko e Tatlin. Con la differenza, però, che il lavoro di Forte non comunica mai freddezza, ma al contrario una sorta di pulsazione, un respiro sottotraccia, l’accenno di una danza

Sembrano fluttuare, in effetti, i cartigli leggeri che si muovono dentro forme circolari incatenate da alchimie sconosciute, anche loro apparentemente rotanti su ritmi ancestrali. Una sensazione, quella della rotazione, che si è fatta ancora più evidente dal momento in cui l’artista ha cominciato a introdurre nel suo lavoro pittorico dischi in silicio, creando una sovrapposizione di piani che non solo spostano il racconto nella terza dimensione, ma vanno anche ad arricchirne il tessuto cromatico di luminescenze metalliche.

Sotto l’incanto ipnotico del ritmo e della forma c’è, nel lavoro di Forte, una narrazione serrata, che nasce dai suoi esordi e arriva coerente fino ai pezzi più recenti, una storia che ci parla dell’umanità e del suo bisogno di raccontarsi. La si scopre lentamente, quando ci si ferma a riflettere sui cartigli, sui papiri che di tanto in tanto fanno la loro apparizione, e allora si scopre che qualche tempo fa, prima di scegliere questo linguaggio geometrico, l’artista si concedeva qualche disordine e inseriva nel suo lavoro pagine di giornali. La scrittura, dunque, e ancora più precisamente la comunicazione delle informazioni come radice prima dell’evoluzione e del nostro essere. In un continuum che va fino al silicio, materiale base per la realizzazione delle schede madri dei nostri computer. Una storia importante raccontata però senza pesantezze, lasciando danzare le forme.

E del resto sembrano danzare anche le sculture in vetro: fasci di bacchette che se da un lato, ancora, mantengono una memoria dei cartigli e dei papiri dell’artista, nella potenza cromatica ci incantano come misteriosi animali marini, meduse fluttuanti, naiadi, forse, o frammenti di corpi femminili acefali come veneri antiche.

Una concessione alla morbidezza, quella dei vetri, che si fa ancora più evidente nei lavori pittorici della serie Argo, dove cartigli smaterializzati, ridotti a trame leggerissime, quasi a eliche di DNA, si librano su quelli che sembrano cieli, forse nebulose di sistemi solari ancora da esplorare.

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