Una casa tutta per sé: lo spazio artistico-politico di Womanhouse (pt 1)

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Judy Chicago, Eleonor Antin, Hannah Wilke, Carole Schneemann, Alison Knowles, Yoko Ono, Ana Mendieta sono solo alcuni dei numerosi nomi di artiste attive in America negli anni ’70. È infatti proprio alla fine degli anni ’60 che, insieme alle rivolte studentesche e ai tumulti razziali esplodono i movimenti femministi, atti alla rivendicazione di una nuova identità libera da oppressioni e condizionamenti sessuali e di potere. L’arte viene vista, specie dalle artiste, come strumento necessario a rivendicare i propri diritti, per intraprende il cammino verso la conquista di un proprio spazio e il recupero del proprio corpo, epurato dai meccanismi del male gaze.

È già nel 1969 che la Art Workers Coalition fonda il gruppo Women Artists in Revolution (WAR). In Italia, solo nel luglio dell’anno successivo si firma il Manifesto di Rivolta Femminile, firmato da Carla Lonzi. “Si agiva”, come scrive Carla Subrizi in Azioni che cambiano il mondo, “nell’arte per agire nella vita e viceversa”. Vi è il sentore di un clima che avrebbe sovvertito le regole precostituite di una società patriarcale e tradizionalista, immobile dinnanzi all’accettazione di una nuova figura di donna, non più oggetto, moglie e madre, ma soggetto attivo e determinante. E l’arte ancora una volta diventa strumento per la lotta al cambiamento, per una rilettura critica della vita e delle regole sociali, delle convenzioni; necessità di distruzione per costruire una società in cui le donne hanno finalmente un loro spazio e una loro voce.

Linda Nochlin

A dare un contributo significativo ai gender studies e all’inversione epistemologica dell’idea dell’arte come predominio maschile è un testo, pietra miliare del dibattito femminista, di Linda Nochlin “Why have there been no great women artists?”. Pubblicato nel 1971, è uno scritto cardine che supera l’idea dell’artista come genio michelangiolesco esente da condizionamenti sociali, affermando che l’arte è un prodotto culturale determinato da logiche sociali, culturali e politiche spesso escludenti, per chi come le donne, sono state confinate nell’ambito familiare e domestico, lontane dall’accesso alla cultura e alla formazione artistica.

Womanhouse catalog cover, 1972, via judychicago.com

È dell’America degli anni ’70 un intervento artistico centrale: Womenhouse, installazione artistica inaugurata il 30 gennaio 1972 e conclusasi il 28 febbraio dello stesso anno. Si tratta di uno spazio non espositivo, ma performativo, di creazione attiva dell’esperienza artistica progettata da Judy Chicago e Miriam Schapiro, fondatrici del Feminist Art Program al California Institute of the Arts. La grande casa sede dell’installazione si trovava in California, a Los Angeles in Mariposa Street n.533.

Clearing out Womanhouse, 1971, via The Art Newspaper

La logica escludente del patriarcato, viene reiterata durante il primo giorno della mostra, in quanto l’ingresso era consentito alle donne soltanto. Womenhouse è stata un’importante azione artistica apripista dell’arte femminista al pubblico generale. Si tratta di un’installazione collettiva, un esperimento artistico realizzato da 21 studentesse del Feminist Art Program guidate da Chicago e Schapiro. La residenza artistica si pone l’obiettivo di sovvertire quei ruoli socialmente etichettati come “femminili”, portando allo stremo la concezione stereotipata della donna come angelo del focolare e balia dei figli e del marito. L’intento era la sovversione delle strutture ingabbianti e oppressive che per secoli hanno categorizzato le donne come figlie, mogli, madri e nient’altro. È un racconto non tanto velato, non discreto, ma anzi esplicito dell’oppressione, delle vessazioni patriarcali, delle aspettative sociali, culturali, politiche, ma anche narrazione dei propri desideri soggettivi attraverso l’arte, la performance, i site-specific.

(To be continued…)

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