Berthe Morisot e Manet, un amore impossibile

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Chiariamo subito una cosa: Berthe Morisot sarebbe esistita anche senza Manet. Sarebbe stata una grande artista impressionista, stimata dai colleghi e presente alle mostre più importanti. Però non si sarebbe divertita altrettanto. Sarebbe stata un po’ meno nervosa, forse, un po’ più morbida nelle forme. Ma non ci avrebbe rinunciato, sono pronta a scommetterlo. Nemmeno quando lui, quel giorno del 1870, l’ultimo valido per presentare le opere al Salon, arriva a casa sua, elegante e perfetto come sempre, accolto da mamma Marie-Joséphine con un sorriso felice, ma un po’ incerto, a metà tra l’orgoglio di avere tra gli amici un uomo tanto distinto e stimato e quel pizzico di preoccupazione che le destavano le occhiate che la figlia gli indirizzava.

Berthe Morisot, Madre e sorella dell`artista, 1869.

La pittrice gli mostra il dipinto che intende portare: La madre e la sorella dell’artista. Chiede un consiglio. E lui, con la grazia di un caterpillar, afferra il pennello e comincia a lavorarci. Berthe impallidisce sempre di più a ogni pennellata, perché la sua tela tutta giocata su equilibri lievi di bianco ora è schiacciata da una macchia nera: l’abito della madre. Un nero nel quale pare di sprofondare. Alla fine sarà così seccata che resterà in dubbio fino all’ultimo sull’opportunità di presentare quel dipinto, oramai non più suo, al Salon.

Eppure no, a Manet non avrebbe rinunciato. Perché nessuno come lui sapeva farle vedere il mondo come un intarsio di toni e di luci, di forme e di colori. E nel suo nero, che tanto l’aveva indispettita su quel dipinto, sarebbe affondata volentieri. Ma non poteva: lui era sposato e lei era una brava ragazza borghese.

Edouard Manet, Il riposo, 1870.

Anche lui sarebbe affondato volentieri nel bianco spumeggiante sotto il quale quella ragazza nervosa, così magra da rischiare di pungersi, emergeva come una splendida strega. C’era tra i loro cervelli una sintonia che non aveva mai provato con nessun’altra. E lui, che la sapeva lunga, era sicuro che al di là del cervello si preparavano altre sintonie ben più esplosive. Avrebbe rinunciato volentieri alla burrosa moglie Suzanne (Leenhoff), alla piccante amante e modella Victorine (Meurent), alla collega Eva (Gonzalès) per lei. Ma forse lei era troppo: Berthe non era una che si poteva prendere così e poi girarsi dall’altra parte.

Edouard Manet, Berthe Morisot con un mazzolino di violette, 1872.

Allora aveva cominciato a ritrarla. Nel Balcone, prima, l’anno stesso in cui si erano conosciuti, il 1868: lei eterea in quell’abito candido, con lo sguardo perso fuori campo. Nel Riposo, poi: quasi sdraiata sul divano dell’artista, ancora avvolta in una nuvola di bianco. Poi Berthe comincia a farsi ingoiare dal nero: nel Ritratto con il mazzolino di violette, dove nell’ombra dilagante tutta la luce è affidata al viso e ai petali dei fiori, appena percettibili, e nello spiritoso ritratto con il ventaglio che le nasconde completamente il viso.

Edouard Manet, Ritratto di Berthe Morisot sdraiata, 1873.

Qualcosa forse accade nel 1873. Mamma Marie-Joséphine non sarebbe stata per niente contenta se avesse visto il ritratto di sua figlia semisdraiata, come se sotto, nella parte non visibile della figura, ci fosse stata Olympia: nuda e offerta. Non avrebbe apprezzato l’espressione sorridente, ammiccante verso l’uomo che la sta ritraendo, i capelli spettinati e gli occhi scintillanti.

Edouard Manet, Ritratto di Berthe Morisot con ventaglio, 1874.

Poi, solo l’anno dopo, tutto si spezza: Berthe sposa Eugène Manet, il fratello – somigliantissimo, va detto – del suo Edouard. Proprio quell’anno il suo amico e mentore le farà l’ultimo ritratto: un primo piano intenso, potente, in cui lei alza la mano sinistra a mostrare la fede nuziale.

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