Marco Bettio, sulla natura e sul tempo

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Marco Bettio è un pittore padovano che attualmente vive ad Aosta. La sua produzione artistica verte su ritratti di animali, incantevoli paesaggi montani e minuziose nature morte. In “Amniotica”, la sua ultima personale curata da Daria Jorioz e Gianluca Marziani, presenta oltre 40 oli su tela di piccole, medie e grandi dimensioni. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare da quali riflessioni e suggestioni nasce la sua pittura.

Marco Bettio, Credere alla luce dei corpi, cm 170×130, olio su lino, 2020.

In “Amniotica” hai messo una selezione significativa delle cose che hai fatto finora. In questo grande liquido amniotico troviamo le tue riflessioni e le tue solitudini, le montagne, gli animali, i pasticcini. Che cosa li accomuna e qual è l’essenza di questo progetto?

In “Amniotica” ho messo una selezione che ritengo matura del mio percorso, una buona parte di quello che ha a che fare con gli ultimi dieci anni del mio lavoro. Le montagne, gli animali e i pasticcini sono tre aspetti di una stessa faccenda che riguarda me, la mia relazione con il mondo e con il vivente. Sono tutte cose che, anche se in un certo senso rientrano nell’archetipo dei generi pittorici (il ritratto, il paesaggio, la natura morta), incarnano per me la pluralità del sentire di ognuno di noi. 

Questa mostra è po’ un fare il punto della situazione, è un rendersi conto a posteriori che è arrivato il momento di mettere in discussione il ruolo dominante dell’essere umano all’interno del creato, del mondo, dell’universo.

Bisognerebbe finalmente superare questa concezione giudaico-cristiana secondo cui l’uomo può assoggettare e dominare una natura, ormai saccheggiata, per tornare a una visione greca del Cosmo, in cui noi facciamo parte di un “tutto”. A proposito di rapporto uomo-natura, come ti trovi a vivere in Valle d’Aosta?

Prima stavo in città ordinarie, come Milano e Torino. Vivere in Valle d’Aosta mi permette di avere una sorta di finestra privilegiata sul mondo. Qui vedi che da un anno all’altro i ghiacciai non son più quelli dell’anno prima e anche chi viene a sciare a Courmayeur si rende conto che in certe giornate 20 gradi a tremila metri sono davvero anomali. Nessuno se li ricorda. Insomma qui hai una percezione e una consapevolezza diverse.

Marco Bettio, I don’t care if nothing is mine #1, cm 24×26, olio su lino, 2021.

Il posto in cui vivi è uno di quei luoghi magici in cui la natura si esprime al meglio e da cui, ahimè, si può vedere in maniera ancora più chiara che cosa sta succedendo con il surriscaldamento globale. È incredibile, siamo l’unico fattore di forte perturbazione della biosfera e abbiamo anche la coscienza di esserlo.

Se ti fermi un attimo e ti metti a ragionare sullo status quo, ti rendi conto che stiamo vivendo veramente come dei folli, come degli incoscienti. In un discorso più ampio, seguendo il pensiero che io trovo assolutamente necessario di filosofi come Emanuele Coccia e Leonardo Caffo, ti rendi conto che siamo davvero arrivati a quel momento. Fino a poco tempo fa si diceva sempre “poi un giorno sarà difficile”. Ecco, quel giorno è arrivato.

Come si riflette tutto questo nella tua pittura?

Dal punto di vista pittorico il mio lavoro è quasi un prosciugamento dell’immagine. È il tentativo di non far parte del sistema di accumulazione in cui viviamo, è un cercare di tirarsene fuori.

Marco Bettio, Non son rose senza spine, cm 24×26, olio su lino, 2023.

Nelle tue opere ci parli di solitudini, forse perché si è perso ormai quel sano rapporto tra uomo e natura?

Noi abbiamo un concetto di cultura che vede il pensiero dell’uomo come l’unico elemento degno di essere valorizzato, è come se avessimo deciso di escludere una quantità di saperi straordinari legati al mondo animale e al mondo vegetale, che avevamo e che abbiamo perso. Credo che a chiunque basti entrare per una sola volta in un allevamento di polli per capire che cosa significhi campo di concentramento, cosa voglia dire morte in vita. E non lo dico perché sono vegano, le mie riflessioni non hanno nulla a che vedere con l’ambientalismo fighetto.

Nella mostra ci sono due dipinti che ritraggono delle montagne, che valore hanno e di quali montagne si tratta?

Sono le due pareti dello stesso massiccio, quello del Monte Bianco, visto dai due versanti opposti. Entrando si vede il versante dall’Italia, quando si esce si vede quello dalla Svizzera. I due dipinti sono disposti anche spazialmente nella maniera rispondente ai reali orientamenti. Oltre che un riconoscimento nei confronti del territorio in cui vivo, questa cosa mi sembrava importante perché inserisce tutto l’insieme dei miei lavori nel contesto preciso in cui queste cose sono nate. Quasi fosse una cosa che andava fatta lì e che altrove sarebbe stata diversa. Nel caso del grande Monte Bianco, quello cioè visto dalla parte sud-ovest, da Courmayeur e quindi dall’Italia, credo di non aver mai passato tanto tempo su uno stesso lavoro. E alla fine è come se chi lo guarda ci fosse realmente dentro, per me è come aver creato la possibilità di essere fisicamente lì.

Marco Bettio, Accadono grandi cose quando uomini e montagne si incontrano, cm 120×200 , olio su tavola, 2023.

Nella tua pittura se da un lato c’è un prosciugamento dell’immagine, dall’altro c’è la stratificazione di una pluralità di momenti e di stati d’animo che in qualche modo entrano nella tua tela. Che cosa avviene quando dipingi?

Effettivamente mentre dipingo, soprattutto in un lavoro lungo, c’è una stratificazione di tempo e di cose che arrivano alla tela. Mentre dipingo sono in un mio silenzio interiore che viene via via abitato. Non sono io a richiamare i pensieri, sono le immagini che via via arrivano e modificano le mie pennellate, il mio gesto, il peso della mia mano sulla tela. A volte capita che il dipinto, di per sé, non sia che una traccia residua di quello che è stato il dipingerlo.

Tu ritrai montagne, animali, pasticcini… quasi mai gli esseri umani.

Ho delle grosse difficoltà a dipingere l’essere umano, ne ho dipinti pochissimi in vita mia. Il dipingere un animale per me, spesso, è l’equivalente del ritrarre una persona.

Marco Bettio, Contava gli anni, cm 24×26, olio su lino, 2020.

Non a caso li chiami ritratti.

Per me sono ritratti a tutti gli effetti. Anche quando il soggetto sono dei pasticcini. Per me non c’è mai una stereotipizzazione, ma è sempre un ritrarre quella cosa lì. Nel caso invece degli animali trovo che ci sia, attraverso la pittura, la possibilità di cogliere delle familiarità. Anche negli asini, non solo nei primati che chiaramente sono più antropomorfi, certe volte trovo una postura, uno sguardo, un atteggiamento umano.

Marco Bettio, L’angelo necessario, cm 150×160, olio su juta, 2023.

Come è nato il ciclo dei pasticcini e perché lo hai chiamato “Desiderio”?

Il ciclo è nato quando sono arrivato a Torino con Sara, la mia compagna. Andavamo nei caffè storici e quei pasticcini ci ricordavano le paste della domenica di quando eravamo piccoli. Erano la materializzazione del desiderio di un tempo perduto. Un tempo in cui si facevano cose diverse, ci si vestiva in modo diverso si dava al tempo dell’ozio un’altra valenza. Così abbiamo iniziato a prenderci un po’ di tempo per dipingerli e poi mangiavamo, così diventavano anche parte di noi. Poi ho visto che funzionavano come lavori pittorici. 

Marco Bettio, Desiderio #2, cm 15×18, olio su lino, 2016.

Immagino che sarete ingrassati, la mia dietologa non sarebbe stata d’accordo! A parte gli scherzi, perché funzionavano?

Pensa che in quei pochi centimetri c’è dentro tutto quello che si può volere dalla pittura: le concrezioni della crosta nella pasta, tutti quegli sbrilluccichi che sono legati alla glassa, i giochi del colore, le ombre, la carta, il pirottino che li contiene. C’è un universo miniaturizzato che esprime tutto!

Marco Bettio, Desiderio #61, cm 24×26, olio su lino, 2019.

Qual è il tuo rapporto con la tecnologia e che impatto ha nel tuo lavoro pittorico?

Penso che oggi non potremmo fare altro che affidarci alla tecnologia per ripensare questo nostro stare al mondo. Noi adesso riusciamo a dialogare guardandoci negli occhi a km di distanza grazie alla tecnologia. Trovo meraviglioso il fatto che oggi io parta da un’immagine digitale, magari recuperata dalla rete, che passa attraverso un programma di rielaborazione dell’immagine fotografica, quindi da una cosa assolutamente aliena dalla pittura. Ma nel momento in cui inizio a relazionarmi con l’immagine per dipingere, quello che faccio è esattamente la stessa cosa che fece il primo tracciatore di segni sulle pareti delle grotte di Lascaux.

Marco Bettio, Desiderio #72, cm 24×26, olio su lino, 2022.

Che cosa ne pensi dei giovani attivisti che imbrattano le opere d’arte?

Va benissimo che i ragazzi protestino, va benissimo anche che facciano delle cazzate, fa parte della formazione del cervello, ce lo dicono anche le neuroscienze, per cui ci sta, però non serve a niente. Se il giorno dopo non se ne parla più vuol dire che non muovono niente e che forse quella non è la strada. Dovrebbero prendersela con chi ha la possibilità di spendere milioni di dollari piuttosto che andare ad imbrattare l’acqua di una fontana del Bernini o di una qualsiasi altra opera che in questo momento è ancora più importante.

Perché, oggi, è ancora più importante una fontana come la Barcaccia del Bernini.

Non per il suo valore economico, ma perché ci dice qualcosa sull’essere umano che potremmo essere.

Marco Bettio, I don’t care if nothing is mine #4, cm 80×120, olio su lino, 2021.

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