Un concetto non ha forma, questa è cosa assodata. Il concetto dell’addizione, il concetto della democrazia, il concetto dell’esistenza di Dio, il concetto del processo di lavorazione della mozzarella, non hanno una forma visibile o tangibile, eppure sono concetti a pieno titolo. L’arte concettuale fa la promessa di svuotare la sua forma a favore di valorizzare un concetto: potrei impressionarti con effetti speciali legati alla forma, ma la forma è solo un supporto per il mio concetto e quindi la deprimo perché non deve contare. Falso, assolutamente falso.
Se l’arte concettuale potesse non avere una forma, certamente eviterebbe di averla, semplicemente non può permetterselo e ciò per due motivi precisi; uno, diciamo, ontologico, l’altro funzionale e banale. Quello banale è che i concetti non sono in scarsità e non sono vendibili, i concetti sono gratis ed il sistema dell’arte non può permettersi di fare arte a gratis. Il motivo ontologico lo dice per primo chi ha fondato il concetto di estetica, ovvero Alexander Gottlieb Baumgarten che scrive “L’estetica è la scienza della conoscenza sensibile” (in Estetica, 1750, ed. it. Aesthetica edizioni, pag. 10), siamo sulla scia di Cartesio e Leibniz, si parla solo di ciò che è chiaro all’intelletto, insomma senza una forma visibile e tangibile, non si può parlare di estetica, e senza estetica non si può parlare d’arte.
Il filosofo Maurizio Ferraris scrive “le opere d’arte concettuale sono altrettante infrazioni a una norma che presuppongono” (La fidanzata automatica, RCS Saggi Tascabili, 2012). La forma e la materia, su cui il concetto è rappresentato, o forse meglio dire “ricordato”, sono l’opera d’arte. Il concetto finisce per essere la scusa per fare forma, mostrare la forma, vendere la forma, godere fisicamente della forma, non il contrario. Ancora una volta è necessario arredare uno spazio con oggetti fisici. Certo, in altre tipi di opere l’oggetto potrebbe scomparire davanti a un paesaggio impressionista, in tal caso non si parlerebbe di arte concettuale, la materia in tal caso sarebbe un mero supporto per una figura che imita, da vicino come da lontano, una qualche realtà fisica.
In un’arte “figurativa” il supporto fisico contiene forme che ricordano altre forme. Nell’arte chiamata concettuale il supporto fisico contiene forme che ricordano concetti. La differenza sta solo in ciò che ricordano, ma il valore intrinseco sta nella materia, nella forma e nella figura, nel primo caso, e nella sola materia e figura, nel secondo caso. A chiudere il tutto vi è l’autore con la sua firma, la cui autorevolezza nel mondo dell’arte conferisce più o meno valore (e forse significato) all’opera.
L’arte concettuale allora è un’arte fisica come l’arte figurativa. ‘Una e tre sedie‘ di Joseph Kosuth, come la scatoletta con la merda d’artista di Piero Manzoni sono pezzi di materia, che hanno una loro forma, una loro estetica e una fisicità che si può mostrare, spedire, collezionare, vendere e addirittura assicurare, contengono anche concetti, con cui al più si può solo ragionare.
L’arte concettuale ha certo bisogno di consenso, molto più di altre forme di arte. L’arte concettuale, in virtù del contenuto astratto che veicola (lasciando furbescamente immaginare che essa stessa sia astratta e senza forma) si spinge fino a poter essere qualunque cosa (Arthur Danto, La trasfigurazione del banale).
Sempre De Ferraris, nel già citato testo, candidamente ed in opposizione a Danto riporta: “nel momento in cui si sostiene che qualunque cosa può diventare opera, si sta rompendo il patto tra l’autore e il fruitore a tutto vantaggio del primo, che diviene giudice onnipotente di che cosa è opera“.
Ragionando a mente candida e a quattro isolati di distanza dal luogo del vernissage, ai più la questione sembrerebbe: “ma se volevi solo illustrare il concetto, non bastava un reel su Instagram (o intervista o articolo)? È ovvio che tu artista vuoi manipolare la materia per darle forma ed ungerla con la tua firma ed è ovvio che, tu gallerista, vorrai che io strisci una Amex per quella forma ed è ovvio che, lo dico a me medesimo uomo viziato qualunque, vorrò collocare quella forma nei miei spazi, fisici o di talking opportunity che siano”.
Dopo la morte dell’arte (vedi:https://www.artuu.it/la-fine-dellarte-da-wittgenstein-allai-passando-per-arthur-danto/) alcuni l’hanno risuscitata, come Maurizio De Ferraris e Stefano Velotti (Estetica analitica Un breviario critico, Aesthetica Edizioni 2008), che rifiutano di poter parlare d’arte senza necessariamente mettere al centro la questione estetica, anche con il suo carico di normalità. Ma un’arte risuscitata dalle ceneri di un secolo di avanguardie e maltrattamenti di ogni tipo, pare non voler più accettare distinguo ontologici, le differenze possono certamente restare al livello dei significati (ermeneutica). Con la mia forma posso rappresentare e significare, romanticamente, il monte cervino, la violenza sull’ambiente oppure l’incertezza della nostra percezione, ma in tutti i casi non potrò fare a meno di un oggetto fisico, una forma e un giudizio estetico.