In risposta a un articolo di Nicola Lagioia (“Sangiuliano è un disastro, ma non è l’unico problema della cultura italiana“), uscito sulla rivista Lucy sulla cultura (rivista multimediale di cultura, arti e attualità), in cui l’ex direttore del Salone del Libro di Torino denunciava la scarsa qualità dell’offerta culturale e artistica italiana, il nostro collaboratore Gianluca Marziani gli scrive una lettera aperta, che pubblichiamo qua di seguito.
Caro Nicola,
ci conosciamo da tanti anni – sei stato il mio editor nel 1998 per il mio primo libro con Castelvecchi – e ti stimo per le belle qualità che esprimi, sia nel tuo operato di scrittore (La città dei vivi è un capolavoro di rara crudezza radicale) che nella tua direzione virtuosa del Salone del Libro. Stavolta, però, devo farti un appunto che tocca nel vivo la mia professione: parlo delle tue parole sulla bassa qualità della proposta espositiva in italia, parole che dimostrano poca conoscenza reale della rete di esposizioni che si espandono su un territorio (unico al mondo) di città e piccoli centri, lungo un intreccio virtuoso che distribuisce contenuti straordinari nei luoghi di ogni tipologia e storia (al momento opportuno, se ci sarà l’occasione, potrei stilarti la mappatura del nostro panorama espositivo).
Per prima cosa citi Rothko (Fondation Louis Vuitton Parigi) e Vermeer (Rijkmuseum Amsterdam) che sono esempi sbagliati: la prima mostra è frutto di un investimento che può fare il gruppo LVMH e pochissimi altri nel mondo, a conferma di costi assicurativi e di prestito talmente elevati da mandare in crisi un intero comparto su retrospettive di tale portata (vorrei comunque ricordarti che una delle più belle retrospettive fatte al mondo su Rothko avvenne a Roma per la riapertura del Palazzo delle Esposizioni); la seconda mostra fu un caso nazionale in Olanda, altro gigantesco investimento e un lavoro pluriennale per costruire una di quelle esposizioni che si fanno una o due volte in un secolo. Questi casi di mostre epocali ma sporadiche ci dicono che il sistema produttivo sta cambiando e segue la logica dei nuovi modelli finanziari, territoriali, comunitari, istituzionali, collezionistici, commerciali, relazionali, logistici, curatoriali: ogni direzione artistica un’identità particolare, ogni linea curatoriale un percorso praticabile, ogni realtà produttiva una proposta targetizzata su esigenze che si legano al tipo di investimento e contesto in cui si agisce. Dove non si possono costruire mostre per un turismo globale a rapido transito si agisce allora con maggiore frammentazione, esaltando il nostro genius loci e un legame Natura/Architettura che ci pone ancora nel cuore poetico del Grand Tour (con gps annesso).
Il bello dell’Italia è la capillare distribuzione dei progetti, un arcipelago inesauribile che intreccia grandi musei e gallerie civiche, gallerie internazionali e spazi di ricerca, coworking creativi e fondazioni per ogni gusto e tendenza, palazzi nobiliari con l’arte all’interno e parchi per sculture all’esterno, quartieri rigenerati con l’arte urbana e festival pieni di arte visiva, installazioni spontanee e graffitismo (non molti sanno che Roma è la città del mondo che ha conservato più muri e tag anni Ottanta, diventando così il primo museo aperto della Street Art), musei aziendali (altra nostra realtà straordinaria) e musei tematici (anche qui siamo un paese che sorprende)… potrei elencare centinaia di esempi, anche perché la mia pratica curatoriale ha sempre agito sulla fluidità permeabile dei territori, combinando linguaggi e concetti, storie e geografie. Faccio sintesi e ti cito un solo caso che penso spieghi come si fanno grandi cose in Italia: mi riferisco ad Arthemisia, il gruppo capitanato da Iole Siena che sta producendo le migliori mostre museali di questo Paese (non dimenticando che il gruppo esporta grandi mostre in Europa, Asia e non solo). Ti consiglio di vedere le loro esposizioni per capire che si può fare molto bene nel nostro sgangherato Paese, che si può offrire una proposta d’eccellenza senza il sentore di prestiti da nazione sfigata. Se vedi il loro marchio ti consiglio di entrare a botta sicura: che si tratti di un gigante del Rinascimento o Escher, di un maestro francese dell’Ottocento o di una stella della Pop Art, ogni volta vieni condotto nel percorso da un insieme di stimoli in equilibrio sensoriale, sempre tra opere ben scelte e ben illuminate, contenuti minuziosi ma leggibili, allestimenti che esaltano l’autore e la nostra ergonomia, tecnologia al servizio della conoscenza, qualità immersive al servizio delle opere, cataloghi e merchandising che non hanno nulla di meno del MoMA Store.
A proposito, siamo anche il Paese che realizza il maggior numero di Premi e Concorsi per le arti visive (e alcuni sono seri, ben fatti e utili per alimentare la filiera), nonché il maggior numero di cataloghi e monografie (resistiamo tra i leader nell’analisi storica delle arti). Siamo un Paese pieno di Fiere (di cui tre – Torino Bologna Milano – che crescono anno dopo anno) e di festival tematici che integrano le arti visive nei loro programmi. Crescono scuole e accademie di qualità (NABA, RUFA, RNA, tanto per citarne alcune), così come migliorano i corsi manageriali delle università che formano studenti per il mondo culturale.
I difetti sono ancora tanti, le manchevolezze vanno colmate, la mediocrità della politica è un problema, la comunicazione unitaria latita, troppe voci inadeguate dicono la loro, le brutte mostre non mancano mai: però non esiste alcuna deriva fascistoide, siamo lontani da qualsiasi ipotesi di pensiero unico, i curatori bravi e svegli portano a casa i progetti alle loro condizioni, così come i direttori fanno ancora i capitani che guidano il museo tra le onde del destino.
Caro Nicola, capisco le tue ragioni etiche ma credo serva lucidità in dettaglio quando si giudicano contesti culturali di cui si conosce poco. A proposito, la prossima volta sentiamoci prima al telefono, così magari facciamo un campo/controcampo sulla tua bella rivista – “Lucy. Sulla cultura” – e tiriamo fuori contenuti pieni di giuste informazioni.
PS: Non si discute che la mostra su Tolkien – miccia che ha acceso tanti fuochi – sia realmente brutta. Ma è tale non per motivi ideologici o politici, è semplicemente un’esposizione strampalata e fatta male, punto e basta. Per fortuna, però, le mostre sono temporanee, quindi un giorno finiscono e si cambia pagina per scrivere nuove pagine.
Con stima intatta, Gianluca Marziani