Esperienza, percorso, immersione, viaggio e una combinazione di tutte queste parole, e molte altre, fanno da sfondo a buona parte dei commenti di critica artistica. Coloro che, per descrivere una mostra, abbiano usato almeno una volta l’espressione “esperienza immersiva”, scaglino la prima pietra. Nel dubbio, comincio io. A seguire, una breve dissertazione sull’arte, sul linguaggio, sul tutto e, dunque, sul nulla.
Le mostre sono sempre viaggi, percorsi, cammini a tappe lungo la narrazione della vita o della realtà, anche quando siamo davanti a un solo quadro, a un’installazione, a una stanza in cui ci sono un paio di immagini, o di fronte a una banana attaccata alla parete con il nastro adesivo. È un viaggio verso qualcosa che non è lì. Nell’ultimo caso, forse, verso un albero in India o una piantagione in Costa Rica, oppure verso il banco del supermercato, o il negozio vicino casa, il cui proprietario, se avesse conosciuto in anticipo lo scopo del nastro adesivo, probabilmente avrebbe deciso di non venderlo, evitando di guadagnare due soldi e, indirettamente, di alimentare un commercio di oltre 6 milioni di dollari.

L’arte è una finestra su un cortile di nuove sensazioni, un tuffo al cuore, un impulso per la mente, un cammino alla scoperta dell’ignoto e di sé stessi. Sempre di sé stessi, dell’uomo e degli uomini in generale, della specie umana e del senso dell’umanità intera che, di quell’opera, molte volte ignora anche l’esistenza. Nonostante questo, l’artista – e qui viene il bello – da solo o in compagnia, continuerà, in ogni caso, a interrogarsi sul significato del vivere, e ci “inviterà” a scoprirlo. Noi, fortunati eletti che assistiamo al risultato di cotanta creazione, di fronte a lavori frutto di anni di ricerca e sperimentazione – quasi sempre è sperimentazione, anche se sembrano riproduzioni stantie e al limite dell’arcaico – continuiamo a interrogarci alla stessa maniera. Perché in quell’oggetto e in quegli elementi, ordinatamente o confusamente posti davanti ai nostri occhi, per scelta o per caso, c’è un’apparenza che diventa sostanza. E che sostanza!
Che sostanza? Al pubblico l’ardua sentenza. L’artista fa, generalmente non spiega. A chi guarda rimane il compito di interpretare, con grande immaginazione, molta cultura, un pizzico di critica e una manciata di opinioni comuni, quello che sta osservando: una linea sulla tela, un intreccio di fili, uno scacciapensieri che vorrebbe simboleggiare l’esplosione della bomba atomica (invento, ma non mi stupirei fosse già stato fatto), una statuetta che rappresenta un usignolo, ma se si guarda meglio è un bambino, un adulto, poi un telecomando, una cinepresa, un broccolo e un televisore. Tutto in un’entità, sé stesso e il suo contrario. Tutto è in mostra, l’artista e chi ne guarda l’opera.

Ma non solo. Una mostra è anche un’esperienza in cui immergersi con tutti i propri sensi, in un universo complesso e articolato come quello artistico, che a parole non si riesce quasi mai a spiegare ma è sempre trasformativo. E forse è per questo che di parole spesso abusiamo, senza comunque andare a finire da nessuna parte. L’artista è un cultore della bellezza, un ammiratore del mutamento e delle debolezze umane. Perciò la sua arte è tormento, interrogazione, dialogo, confronto, dolore, amore, morte, caos, struggimento, poi silenzio. Il suo operato è una tela bianca che diventa a colori, con forme sempre nuove, diverse tra loro, e forse uguali a tante altre, ma uniche nel loro genere e che senza dubbio vale la pena contemplare. Almeno per confermare che siano effettivamente uguali a tutte le altre.
Ma un’opera è soprattutto senza tempo, fuori da ogni canone, lontana nello spazio e nelle dimensioni fisiche, eterea e immortale come chi la produce spera di diventare un giorno. È la metafisica degli elementi a creare ogni differenza, come se la convergenza verso un unico dettaglio fosse in grado di generare un collegamento diretto con l’osservatore, in un gioco di contrasto tra luci e ombre, dimensioni e sfumature, in cui la prospettiva, variegata e imperfetta, è quella di chi è capace di interrogarsi e andare oltre. Arrivata fino a qui, confusa a sufficienza, non più di come già non lo fossi all’inizio di questo esercizio letterario, mi chiedo: non è proprio in questa continua ambiguità, questo oscillare tra verità e menzogna, tra realtà e apparenza, che risiede il senso stesso dell’arte? Se così non fosse – non me ne stupirei – dubito che qualcuno possa, comunque, affermare il contrario.