The Second Body, il racconto di una performance al Short Theater Festival di Roma

Roma, 8 settembre, ingresso dell’ex Mattatoio a Testaccio, Roma. Sono le 21 e 30 e domenica e la città non si è ancora riempita dopo il periodo delle vacanze. Davanti alla Pelanda sembra esserci parecchia gente in fila che aspetta di assistere alla performance. Si tratta di “The Second Body”, dall’artista e coreografa polacca Ola Maciejewska, titolo che ricalca quello del libro di Daisy Hildyard.

La performance fa parte del festival internazionale Short Theatre di Roma, iniziato lo scorso 5 settembre e che, alla sua diciannovesima edizione, porta l’arte contemporanea e performativa in 13 eccezionali location dislocate su 4 diversi municipi della capitale. Per dieci giorni 40 compagnie emergenti e di fama internazionale provenienti da tutto il mondo proporranno 50 progetti sviluppati partendo da spunti estrapolati dal titolo che accompagna questa edizione: Viscous Porosity

El Conde de Torrefiel Ultraficción n 1 foto di Inés Bacher

Per gli organizzatori questo si presenta come “una chiamata ad accendere la percezione sull’interconnessione tra le relazioni umane, naturali e sociali, sul contagio e la capacità di trasformazione reciproca; un invito ad allenare la lettura del presente osservandone le criticità, le incongruenze e le forme di dissenso”. In scena artisti del calibro di Rimini Protokoll, che presenta i due lavori The Walks e Uncanny Valley (Stefan Kaegi / Rimini Protokoll), ma anche El Conde de Torrefiel, Valentina Magaletti & Nídia, Antonia Baehr & Latifa Laâbissi + Nadia Lauro, solo per citarne alcuni.

Tra questi spettacoli, a metà tra il teatro e la performance, c’è anche The Second Body, come dicevamo. Torniamo dunque al racconto della perfomance

Nella sala ci sono due corpi dunque: uno concreto, fatto di carne e ossa e l’altro diffuso, legato indissolubilmente ad una rete complessa di scambi con gli ecosistemi che lo circondano. Finalmente il primo spettatore scosta la pesante tenda nera e uno dopo l’altro veniamo accolti in una stanza quadrata e ben illuminata, col perimetro segnato da una fila di sedie e una di cuscini poggiati direttamente a terra.

Sul lato sinistro ci sono delle vetrate che dal pavimento di cemento grigio si estendono fino alla struttura dove un tempo scorrevano i ganci per il trasporto degli animali appena macellati, e qualche curioso già si affaccia per riuscire a vedere qualcosa. Al centro della stanza è poggiato un grosso blocco di ghiaccio. Ha una forma particolare, quasi organica, che potrebbe ricordare quella di una grande vertebra, forse. Nell’angolo di sinistra, rannicchiata al margine dello spazio dell’azione, c’è una giovane donna, vestita solo fino in vita con dei pantaloni larghi tenuti su da una cintura e un paio di scarpe nere.

Leah Marojevic è l’interprete di questa performance che l’artista polacca Ola Maciejewska ha concepito partendo dal contrasto tra materialità e impermanenza e dal rapporto distruttivo dell’uomo con l’ambiente. Questi temi ci vengono restituiti per mezzo di una coreografia in cui la collisione tra i due corpi genera uno stato di continua metamorfosi. Nella stanza cala un silenzio religioso, la ragazza si avvicina al blocco quasi strisciando fino ad inglobarlo in un abbraccio sofferto. Ha inizio così la danza di questi due corpi che per un’ora interagiscono straziandosi l’un l’atro.

Ola Maciejewska The Second Body © Maria Baranova Suzuki Watermill Center

Mentre il ghiaccio si scioglie lentamente al tocco, il torso, le braccia, le mani e il viso dell’interprete si colorano di un rosso sempre più carico. La ragazza solleva quel blocco dall’aspetto così pesante, lo porta al petto e per qualche secondo rimane immobile in una posizione di equilibrio precario. Si alternano momenti in cui il rapporto tra i due attori in scena dà un senso di tenerezza e altri di aggressività e frustrazione

Lo sforzo, il freddo e la fatica data dal movimento continuo si rendono percepibili ad ogni contrazione del volto e al risuonare del respiro affannato che diviene la colonna sonora dell’azione. Mi guardo intorno rapidamente e noto come tra il pubblico numerosi spettatori si stiano sventolando: chi con ventagli colorati e chi con le brochure che consegnavano al bancone dell’ingresso.

Intanto, sotto i nostri occhi, Leah Marojevic trema. Ciascuna delle parti coinvolte forse desidera ciò che ha l’altro in questo preciso momento. Il secondo corpo allora può essere anche questo: il corpo dell’altro, quello che guardo con empatia o che fatico a guardare mentre soffre, quello che invidio solo perché non so cosa voglia dire trovarmi al suo posto. Ciò che sta accadendo qui, al centro della stanza, riguarda anche me.

Nell’atto dell’osservare senza distacco, del relazionarci con ciò che ci circonda, anche noi del pubblico prendiamo parte a questo gioco. L’esito e il significato della performance, che si svolge all’interno del contorno tracciato dall’insieme degli spettatori, sono influenzati e mutano anche in relazione a ciò che accade in questo spazio perimetrale. Quando il blocco è ormai ridotto in tanti piccoli frammenti sparsi sul pavimento bagnato, la ragazza si alza ed esce dal punto stesso da cui eravamo entrati. Pochi secondi dopo riappare sorridendo, avvolta in un accappatoio e si inchina al suono degli applausi, come a voler sottolineare lo stacco tra quanto è successo poco fa, in questo spazio che abbiamo creato tutti insieme e il ritorno al nostro ambiente quotidiano, che ci aspetta appena oltrepassata nuovamente quella tenda nera.

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