C’è tempo fino al 28 aprile per vedere la personale dal titolo Wort di Enrico Bani alla Blue Gallery di Venezia. L’esposizione si configura come la seconda del ciclo di mostre site specific per la galleria veneziana a cura di Quadro Zero, il duo creativo formato dal designer Vincenzo Alessandria e il fotografo Giulio Buchicchio.
La mostra, prima personale dell’autore, ha come protagonista la grafica su carta inserita in un allestimento non convenzionale, dove le opere si appropriano dello spazio rompendo i canoni allestitivi tradizionali.
Il giovane artista pisano formatosi all’Accademia di Carrara, rivela in questi lavori una passione per la grafica d’arte contemporanea i cui risultati risultano estremamente materici ed inaspettati, con suggestioni lontane nel tempo e nello spazio.
Nella variegata geografia delle tradizioni che hanno a che vedere con il segno e la storia della grafica, Bani attua un’operazione di decostruzione dei canoni ufficiali del linguaggio per edificarne di nuovi, aderenti ad una contemporaneità caotica e spesso indecifrabile.
Wort, dal tedesco “parola”, è già in sé un monito dell’artista, una sintesi della sua poetica.
È il gesto l’elemento generatore di questo nuovo linguaggio che però Bani identifica nello specifico con il “gesto privo di paura”, liberato dalla soggezione della tecnica accademica e più autentico rispetto al sentire dell’artista.
Le lettere dell’alfabeto vengono decostruite e, a partire dalla loro architettura canonica, viene operato un processo di smaterializzazione e astrazione, a volte con aggressività, altre con stratificazioni di segno e di materia.
Bani utilizza la tecnica dell’acquaforte ed in alcuni casi utilizza la carta stagnola ed effettua delle bruciature sulla superficie. Il nero risalta sul bianco della carta e, l’insieme di segni e tracce nel loro disordinato reticolo rievocano le antiche scritture o le pregiate pergamene.
Osservando attentamente le opere più elaborate, il pensiero va addirittura alle primordiali pitture rupestri, testimoni dell’importanza della comunicazione dell’uomo fin dai suoi esordi insieme alla necessità intrinseca di lasciare una traccia, un segno della sua presenza.
Tuttavia le suggestioni non finiscono andando indietro nell’ordine del tempo ma si estendono anche nello spazio: le carte di Enrico Bani con il suo nuovo linguaggio apparentemente criptico e allo stesso tempo estremamente comunicativo, richiamano all’Oriente e più precisamente alla cultura giapponese per la lavorazione della carta e per i suoi alfabeti sillabici, i cui caratteri sono costituiti da piccoli segni articolati ma decisi.
La Blue Gallery per questa occasione si presenta attraverso la vetrata come una sorta di vero e proprio palcoscenico, dove protagonista è un monotipo di 9 metri che, come una sorta di lunghissima pergamena, si srotola e attraversa letteralmente lo spazio, dichiarandosi così più simile all’installazione e costringendo l’osservatore ad entrare e girarci attorno per meglio osservarla da più lati.
La volontà è duplice sia da parte dell’artista sia da parte dei curatori: l’affermazione del segno e del nuovo linguaggio, decostruito e svuotato dai suoi caratteri semantici, si manifestano ed emancipano nello spazio. Qui, in un continuum di interferenze tra linguaggio, segno, materia e installazione, si esalta la galleria e la si rende ancor più visibile nella sua piccola estensione, valorizzandone le potenzialità seppur nei suoi pochi metri quadri.
Infine, non mancano i riferimenti alle origini di Bani, disseminati qua e là nei piccoli dettagli: l’utilizzo di grosse viti per l’installazione del monotipo e per tutto l’allestimento, rimanda al mondo dell’edilizia dei materiali da costruzione, ambiente frequentato dall’artista già nella sua famiglia di costruttori e di cui volontariamente lascia traccia.
Incursioni personali, dunque, insieme a riflessioni più estese sull’importanza di una comunicazione libera e non omologata, da sempre ricercata ma oggi più che mai necessaria.
Enrico Bani, attraverso il suo nuovo alfabeto, testimonia l’importanza dell’espressione libera della parola, auspicabilmente slegata da sovrastrutture e testimoniata al mondo con audacia e “priva di paura”.