Il Pop è morto, viva il Pop! Se negli anni Ottanta, dopo la grande sbornia ideologica degli anni Settanta, in Italia si era coniato il termine “riflusso” (per indicare un periodo caratterizzato da una caduta di tensione verso le generali aspettative di progresso sociale e di conseguente ripiegamento nella sfera del privato), è forse il caso di prendere atto che anche in Cina, dopo la sbornia economicista e occidentalizzante (“compagni, arricchitevi!”) degli anni Novanta e primi Duemila (caratterizzata dall’emergere e dal successo del cosiddetto “Pop cinese”), dopo la supercrescita economica, il dilagare del “modello cinese” in vari campi, dalle tecnologie all’arte visiva, dopo lo schock di Tienammen, la mano ferrea del Partito, il Covid, la recessione, la nuova guerra sempre meno fredda per l’egemonia mondiale e l’allontanamento sempre più marcato dal modello occidentale – ebbene, forse, anche in Cina è ora arrivato il momento del riflusso. Ripiegamento nella sfera del privato, rifiuto della politica, ragionamento sul linguaggio, rilettura delle proprie tradizioni e della propria più profonda identità.
Se Wang Guangyi – il cui nome al lettore medio occidentale dirà assai poco, ma è di fatto uno dei massimi artisti cinesi e internazionali – è stato, alcuni decenni or sono, uno dei massimi esponenti del boom del Pop cinese, anche oggi rimane più che mai un artista emblematico, perché, con quella sensibilità fuori dal comune che trascende a volte la volontà, ma non la consapevolezza di ciò che si sta compiendo, che caratterizza sempre i grandi artisti, Wang Guangyi è tornato al privato come sfera di misurazione, di contraddizione, di allenamento e anche di conflitto di ogni ragionamento sulla storia dell’uomo, sulla sua identità a confronto con la Storia, con l’altro, con l’inconoscibile e in definitiva con sé stessi.
La mostra “Obscured Existence”, prima esposizione personale in Italia dell’artista, ospitata a Firenze a Palazzo Pitti fino al 10 dicembre, a cura di Demetrio Paparoni ed Eike Schmidt, direttore del Museo degli Uffizi (a cui l’artista donerà a fine mostra un suo Autoritratto), testimonia le tappe chiave del suo percorso e del suo approdare oggi a nuovi, inediti cicli di lavori, in una chiave più intimista e di ricerca fortemente spirituale – come il ciclo “Daily Life”, che si concentra sui gesti quotidiani affrontati con una forte valenza sacrale, e “Ritual“, che trasforma oggetti comuni in simboli di una liturgia segreta. “Se vuoi”, ci dice l’artista nel corso della sua visita a Firenze, in una conversazione a ruota libera avuta assieme a uno dei due curatori della mostra, Demetrio Paparoni, “puoi individuare anche qualcosa di mistico nel mio lavoro. Da bambino ho assistito a pratiche sciamaniche che mi hanno colpito. In questo sento una certa vicinanza con Beuys. Nelle opere del ciclo Daily Life mi concentro su gesti e situazioni che appartengono alla nostra routine, ma anche su oggetti e luoghi che identifichiamo come banali. Ma anche in gesti e luoghi banali, legati alla nuda vita, si nascondono forme di ritualità quotidiana che possono evocare la dimensione del sacro”.
Nato nel 1957 ad Harbin, nella provincia di Heilongjiang, nel nord est della Cina, Wang proviene da una normalissima famiglia di lavoratori. Suo padre era un ferroviere; sua madre era di etnia manciù, cresciuta con poca istruzione ma con mani abilissime, che realizzavano bellissime decorazioni per finestre ritagliate con la carta, cosa che influenzò molto il giovane Guangyi, che in un’intervista ricordò come fu proprio “il sole che splendeva attraverso la finestra e illuminava il taglio della carta”, creando “illusione e mistero”, a dargli la prima scintilla di riconoscimento di che cosa sia l’arte.
Già da adolescente, cominciò così a studiare arte, al Children’s Cultural Palace di Harbin, la sua città natale: ma, come tutti gli studenti dell’epoca (eravamo nel pieno della Rivoluzione culturale voluta da Mao, che, tra il 1965 e il 1969, portò nel paese un’ondata di radicalizzazione delle istanze socialiste capitanate dalle “guardie rosse” contro i vertici stessi del Partito e i vecchi dirigenti, considerati controrivoluzionari perché troppo “riformisti”), anche Guangyi fu mandato in campagna, insieme a milioni di giovani cresciuti nelle città, ad imparare dai contadini. Trascorse così tre anni in un remoto villaggio a imparare la “vita collettiva” e il lavoro manuale. Quando il padre andò in pensione, Guangyi lo sostituì nel lavoro nella ferrovia, occupandosi di un vagone letto notturno. Ma la sua consolazione rimase sempre il disegno: all’inizio degli anni Settanta, lavorò come pittore di manifesti di propaganda rivoluzionaria, aggiungendo slogan politici alle sue rappresentazioni realiste e rivoluzionarie di lavoratori, contadini e soldati: ricordo che influenzò il suo lavoro successivo, quello che gli diede poi la fama negli anni Ottanta, in cui avrebbe mescolato i simboli rivoluzionari con quelli del capitalismo e della cultura pop occidentale.
Finita la Rivoluzione culturale (che aveva chiuso le Università e Accademie perché nidi di pericolosi “intellettuali revisionisti”), Guangyi si presenta all’esame di ammissione all’Accademia, ma per ben tre volte non lo supera. Al quarto tentativo, riesce finalmente ad entrarvi, nonostante il ristrettissimo numero di posti disponibili. Lo considera “un miracolo”, e da lì inizia la sua vera vita d’artista. Poco interessato agli studi di disegno accademico che allora formavano l’intera formazione degli studenti d’arte, diventa presto animatore di un gruppo di giovani artisti che sentivano spirare una “nuova aria” nell’arte cinese, influenzata anche dal crescente interesse per l’arte occidentale e per i linguaggi delle avanguardie. Nel frattempo, man mano che la letteratura e l’arte occidentali iniziano a filtrare in Cina, Guangyi, come molti altri giovani della sua generazione, imbevuti fino a quel momento solo dei pensieri del “Libretto rosso” di Mao e delle dottrine socialiste, comincia a leggere filosofi e pensatori stranieri come Kant, Hegel e Nietzsche.
Dopo un periodo di isolamento in un paese rurale, nel 1984 torna finalmente ad Harbin, e lì, assieme ad alcuni suoi compagni di strada, forma il “Northern Art Group”, un gruppo che enfatizzava l’analisi fredda e razionale dell’opera, in controtendenza rispetto alle esaltazioni febbrili della Rivoluzione culturale. Coi suoi primi lavori di quegli anni, Wang Guangyi ripercorre la storia e le icone dell’arte occidentale con colori freddi, un’atmosfera malinconica, una ricerca di spiritualità già accentuata, mettendo in scena un’umanità ghiacciata, astratta, aliena. Già si intravedono, nel suo percorso, alcune linee-guida del suo lavoro odierno.
Nel suo libro Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, del 1960, Gombrich scriveva: “È necessario avere un punto di partenza, uno standard di confronto, per iniziare quel processo di creazione, abbinamento e rielaborazione che alla fine si incarna nell’immagine finita. Non si può iniziare da zero, ma si può criticare i propri predecessori”. Wang Guangyi riprende questa teoria, sintetizzandola nel suo lavoro, appropriandosi e rettificando immagini iconiche in un linguaggio del tutto nuovo. “Da ragazzo”, ci racconta ancora l’artista nel corso della visita alla mostra fiorentina, “leggendo Gombrich ho imparato che l’arte nasce sempre dall’arte e nel suo svilupparsi c’è sempre qualcosa di diverso. Ma devi anche considerare che la nostra lettura delle immagini cambia a seconda del luogo in cui l’arte viene fatta e percepita. Si può leggere la stessa immagine, in maniera assai diversa a seconda della tua cultura di formazione e a seconda del luogo in cui vivi”. E non c’è dubbio che per noi, che abitiamo in Italia e che alcuni dipinti presenti nei musei italiani li conosciamo a memoria, la rielaborazione contemporanea che ne attua Wang Guangyi offre un senso di riconoscimento immediato, quasi una sorta di déja vu, che ci fa muovere qualcosa dentro in maniera istintiva prima ancora che sul piano razionale.
“Tra le opere scelte insieme a Schmidt e a Paparoni per questa mostra”, ci dice ancora l’artista, “ci sono, oltre agli autoritratti del ciclo ‘Daily Life’ e altri dipinti recenti, opere che fanno riferimento a Masaccio, Carracci, Rembrandt. Il mio dipinto Obscured Existence – Hospital Bed, in mostra a Palazzo Pitti, fa riferimento a Likeness I & II di Marlene Dumas, che a sua volta però attinge al Cristo morto di Holbein. Come vedi le immagini passano di mano, e man mano che passano di mano diventa altro rispetto all’opera di partenza”.
Ed è proprio dallo studio e dalla rielaborazione dei dipinti iconici della storia dell’arte occidentale che nascono i primi lavori che lo portano alla ribalta: quelli della serie “Post Classics”, iniziata nel 1986, nel quale Wang rielabora i capolavori dell’arte classica occidentale, come La morte di Marat di David, spogliando tutti gli elementi religiosi ed eroici e dipingendoli in grigio. “Ho guardato la Storia dell’arte occidentale sin da quando ero studente”, ci racconta Wang, “e anche per questo essere adesso qui agli Uffizi per me ha un valore molto speciale. Ma attenzione, nel mio lavoro non cito, né rielaboro il lavoro dei grandi artisti del passato. Il principio da cui parto nella realizzazione di una parte della mia opera pittorica è che ogni quadro è come se fosse il naturale proseguimento di un dipinto del passato, che a sua volta nasce per essere elaborato nel tempo da un altro artista”. “Già nei miei dipinti del ciclo Post Classical del 1985”, continua l’artista, “trovi riferimenti a Rembradt, David, Leonardo. E poi, da lì a poco ho guardato anche Michelangelo Raffaello, Velázquez, ma anche Duchamp e Beuys. Ma se vai avanti negli anni nei miei singoli dipinti di riferimenti a maestri del passato ne trovi molti altri. Masaccio, per esempio. Per questa mostra a Palazzo Pitti ho guardato anche opere conservate agli Uffizi. Due dei dipinti in mostra, quelli che fanno riferimento alla Medusa di Caravaggio e alla Caduta degli angeli Ribelli di Andea Commodi, li ho realizzati su esplicito invito di Schmidt, cosa che ho fatto volentieri. Guardo con interesse l’opera dei grandi della storia dell’arte, ma mai con l’intento di copiare”.
E, se è proprio dall’arte del passato che nascono i primi lavori (e anche gli ultimi che vediamo in mostra a Firenze), è dalle icone rivoluzionarie della sua formazione che nascono i quadri che lo avrebbero reso famoso pochi anni dopo. È il 1989 quando otto dei suoi dipinti raffiguranti Mao Zedong vengono esposti in una mostra sulla nuova arte cinese, “Cina/Avant-Garde”. Wang toglie, si può dire, Mao dal piedistallo, e gli sovrappone uno schema a griglia neutra sul viso, insieme a lettere alfabetiche apparentemente senza significato. “Solo quando ho iniziato a dipingere Mao”, avrebbe detto in un’intervista, “la mia pratica artistica ha iniziato a maturare; solo allora mi resi conto di ciò che era realmente connesso alla mia esperienza di vita e al mio percorso formativo”.
Ma è con la serie “Great Criticism” che gli arriva la consacrazione, anche a livello internazionale. “Nonostante le scarse qualità artistiche delle immagini di propaganda realizzate dai pittori dilettanti durante la rivoluzione culturale, trovavo in esse un tipo di potere unico che desideravo sfruttare nelle mie opere”, dirà ancora in un’intervista. “Ho ingrandito e copiato su una tela una di quelle immagini di operai, contadini e soldati, mettendola in un angolo, e non avevo idea di come affrontarla. Diversi giorni dopo, ho avuto la possibilità di bere una lattina di Coca-Cola. Questo accadeva in quei giorni in cui molti prodotti di consumo occidentali (come la Coca-Cola e le sigarette Marlboro) erano appena entrati in Cina, ma la Coca-Cola era ancora una bevanda considerata di lusso. Ho appoggiato la lattina per terra e all’improvviso mi sono venute in mente alcune associazioni di idee molto interessanti”.
È quello che si chiama un’illuminazione. Il confronto con i simboli del socialismo reale, di cui lui e i cinesi della sua generazione erano ancora imbevuti, e le icone della società dei consumi, sono state la chiave del ciclo “Great Criticism”. Attraverso la giustapposizione delle icone rivoluzionarie con il consumismo esasperato dei simboli e dei loghi occidentali, Wang sembra trovare una fusione armoniosa tra due ideologie e sistemi visivi apparentemente antitetici, sottolineando di fatto la loro complementarietà. Ma già allora, l’artista – mentre le sue opere spopolavano in Occidente, con la consacrazione della copertina di “Flash Art” nel 1991 e la prima grande visibilità internazionale alla Biennale di Venezia del 1993 – avvertiva: “quando ho affiancato i poster di propaganda alla coca-cola, l’obiettivo spirituale era stabilire un legame tra l’“utopia” e il “feticcio”. Credo che le persone dovrebbero avvicinarsi alle mie provocazioni in modo serio, con un senso del sacro”.
Ed è proprio da questo senso immanente del sacro che l’artista riparte oggi, con gli stupefacenti cicli di quadri in mostra a Firenze. “I dipinti del ciclo Obscured Existence che trovi in mostra a Firenze”, ci dice Wang, “seguono un preciso processo: riporto a mano libera nella tela le sagome di opere del passato e poi lascio sgocciolare sopra del colore. Dei dipinti del passato, ma anche di foto prese da giornali, mi limito a riportare sulla tela solo la sagoma. Lo faccio a mano libera perché non voglio che il riferimento all’opera presa a modello sia pedante. Non uso mai il proiettore. Le sgocciolature, sono riferite a una antica pratica cinese e non all’Action Painting, come qualcuno erroneamente ha pensato, si sovrappongono all’immagine di base, divenendo un tutt’uno con essa”. La pratica a cui fa riferimento Wang è quella del Wu Lou Hen (letteralmente “gocce d’acqua da un tetto che perde”), che si rifà a una pratica della calligrafia cinese che imita lo sgocciolare della pioggia su un muro durante un temporale. Ancora una volta, l’identità occidentale, con i suoi idoli, i suoi feticci, la sua storia e le sue icone, si mescola a una pratica che è profondamente radicata nella cultura di base della sua storia personale e di quella collettiva del suo paese. E ancora una volta, memoria, storia, credenze, quotidianità dispiegano le loro ali per cercare di carpire, attraverso l’illusionarietà di un’immagine intravista dietro a uno sgocciolìo di linee astratte, il senso stesso dell’esistere, del nostro stare nella storia e nel mondo.
Photo Credits: Courtesy of Uffizi Galleries, Firenze