In occasione della retrospettiva alla Fondation Louis Vuitton di Parigi dedicata a Mark Rothko, aperta fino al 2 aprile 2024, pubblichiamo un reportage in forma di racconto del nostro collaboratore Michele Dolz.
Era il 25 febbraio 1970 quando il suo assistente lo trovò morto nello studio, le vene tagliate, immerso in una gran pozza di sangue rosso, rosso sangue. Quel rosso l’aveva cercato come il Santo Graal della sua pittura, ed era lì, sgorgato dal suo stesso corpo. Mark Rothko aveva finito la sua indagine.
La prima volta andai alla Tate Modern di Londra avendo visto solo le foto dei quadri per il ristorante Four Seasons di New York, ma quando entrai nella sala l’emozione fu così forte che dovetti sedermi. Tele grandissime con ampie campiture di rosso e grigio nero a formare rettangoli chiusi. Toni intensissimi ma cupi, che impongono da soli il silenzio e suggeriscono di guardarli con calma e con amore, e allora ti mostrano l’insondabile profondità, la vibrazione costante come luccichio nell’ombra. Solo allora mi resi conto che, a differenza di tutte le altre, quella sala della Tate aveva lunghe panche per sostare e una luce bassa per immergersi nel mistero.
“Rosso! Rosso! Rosso! Non so nemmeno cosa significa! Che vuol dire per me rosso? Vuoi dire scarlatto? Vuoi dire crimson? Vuoi dire magenta, salmone, carminio? Qualunque cosa tranne che rosso!”. Non le disse Rothko, queste parole, non il Rothko vero, ma quello della pièce di John Logan, che dovrebbe assomigliargli. Rosso ossessione.
Qui la luce e l’oscuro, l’ordine e il caos vivono insieme nello stesso piano, pulsano insieme, sono Apollo e Dioniso. E noi siamo capitati in mezzo. Dal palcoscenico il falso e vero Rothko ci stimola: “Avvicinati. Devi stare vicino. Lascialo pulsare. Lascia che lavori dentro di te. Più vicino. Troppo vicino. Così. Lascia che si espanda. Lascia che ti avvolga con le sue braccia, lascia che ti abbracci riempiendo anche la tua visione in modo che non esista null’altro o che niente sia mai esistito né esisterà. Lascia che il dipinto faccia il suo lavoro. Ma lavora insieme a lui. Incontratevi a metà strada, per l’amor di Dio! Sporgiti verso di lui, dentro di lui. Impegnati con lui!”.
Sentivo che lo diceva a me. E andavo avanti e indietro per la sala e non so come entrai nei dipinti o nella loro anima o nell’anima di Rothko suicida o forse solo nella mia. Sentivo un battito fremente in ogni angolo. Un’ebrezza mai conosciuta. Mi sedetti incapace di pensare. E allora un bagliore uscì dal marasma, un chiarore spaventoso e osceno: quello era il battito della morte. La sala mi opprimeva. Le velature profonde dei dipinti non portavano da nessuna parte. Era chiuso, serrato dappertutto. Guardavo la porta illuminata che dava sulle altre sale distratte dai turisti irriverenti e volli scappare. Duellai con quello spasmo irrazionale, ma sono anch’io pittore: no, Rothko, tu non mi freghi.
Leggevo: “Rothko era influenzato dalla Biblioteca Laurenziana di Michelangelo a Firenze, con le sue finestre cieche e l’atmosfera deliberatamente opprimente. Rothko commentava che Michelangelo ‘aveva proprio i sentimenti che io vado cercando; egli fa sì che i visitatori si sentano intrappolati in una stanza dove tutte le porte e finestre sono murate, di modo che tutto quel che possono fare è battere la testa per sempre contro il muro’”.
Nel 1959 apriva a New York il ristorante più raffinato che allora si poteva pensare, The Four Seasons. Era alloggiato nel Seagram Building, al 99 della 52 strada, un edificio progettato, come lo stesso ristorante, da Ludwig Mies van der Rohe e Philip Johnson. Non si badava a spese. Le sale dovevano essere decorate da grandi artisti contemporanei, ed ecco cadere la sorte su Mark Rothko.
Sì, era un grosso lavoro. Un prestigioso lavoro. Egli avrebbe fatto una serie di opere in grande formato che coprissero le pareti creando un’atmosfera avvolgente. Tutti entusiasti, Rothko compreso.
Ma quel russo americanizzato, che poi era una buona persona solo dal carattere difficile, aveva conservato lo spirito rivoluzionario della sua giovinezza. E pensò: voglio fare “something that will ruin the appetite of every son-of-a-bitch who ever eats in that room”. Intollerabile appariscenza borghese.
Perché volete chiedere a un artista una coerenza d’acciaio? Se non fosse volubile e perfino contradittorio non sarebbe un grande artista. E Mark era un artista enorme. Così si mise comunque a lavorare a quel restava del progetto della sua vita. Riprodusse in studio le dimensioni del ristorante e lavorò con militare perseveranza. Rosso ossessione.
Quando ebbe finito, il suo spirito ribelle rigurgitò. L’ambiente frivolo e mondano del ristorante lo disgustava a tal punto che ritirò le sue opere e restituì i soldi dell’anticipo. Miracolo che tutto andasse bene.
Non so quanto sono stato seduto sulla panchina della Tate, lo sguardo perso nell’esanime spessore delle tele. Panorama esangue. Il sangue vero rosso era uscito dalle vene tagliate. L’avevi visto morendo.
Dal Four Seasons alla Tate. Alla fine degli anni Sessanta Rothko donò al museo inglese nove di quelle tele. Non è il Rothko che noi conosciamo, dicono. Curioso davvero, quel tentativo di far venire il mal di pancia ai borghesi del ristorante lo portò ad aprire un nuovo filone della sua arte, a cercare armonie che qualcuno ha chiamato religiose. Cosa assurda date le sue intenzioni. Rosso ossessione. Certo è che hanno un altro respiro, più serio, un po’ malinconico, privo di speranza. Ma questa è comunque la grande arte, una vetta del tormentato Novecento.
Ero andato alla Tate con l’idea di scrivere un articolo. Ne uscì determinato a non scrivere niente. Era come invadere maldestro qualcosa di serio che non mi apparteneva. Lasciai che i turisti distratti vi gettassero occhiate distratte.
Ora la Fondazione Louis Vuitton presenta a Parigi una grande retrospettiva dedicata a Mark Rothko, che riunisce circa 115 opere provenienti dalle più grandi collezioni pubbliche e private, tra queste quella della famiglia dell’artista. La mostra ne ripercorre l’intera carriera: dai primi dipinti figurativi alle opere astratte per cui è conosciuto oggi.
Di quei primi lavori sembra che Rothko non fosse affatto felice. C’è un libro di riflessioni estetiche dell’artista il cui manoscritto rimase ignorato tra le sue scartoffie dopo la morte per diversi decenni. Dato alla stampa dal figlio Christopher in tempi recenti sotto il titolo L’artista e la sua realtà, ci fa conoscere il pensiero del maestro, perché Rothko, scrive il figlio, “fu esplicitamente un pittore di idee, come lui stesso non si stancò di ripetere. Queste si sentono filtrare sotto la superficie delle sue astrazioni altrimenti piuttosto amorfe”. Di quei lavori iniziali non gli andava la resa approssimativa delle figure, le prospettive appiattite… Ma egli, continua Christopher, “non era interessato a restituire una rassomiglianza, voleva invece trasmettere ai suoi quadri un senso di sostanza reale, di peso sensibile”.
Poi ci fu la virata verso le campiture uniformi, che sono tutt’altro che piatte: si agitano di infinte variazioni, sono materia viva. Diceva di se stesso: “Sono diventato pittore perché volevo elevare la pittura al livello di intensità della musica e della poesia”. Fu dopo la guerra.
La permanenza delle domande di Rothko, il suo desiderio di dialogo senza parole con lo spettatore e il suo rifiuto di essere visto come un colorista sono elementi che ancora oggi ci fanno riflettere.