FLESH significa carne nelle sue sfaccettature di carne alimentare e metafora del corpo sensuale e passionale. E’ anche il titolo di una retrospettiva che riprende fotografie di 13 artisti affermati al confine tra due forme artistiche: la fotografia visiva e la performance. Nata da un’idea di Carlotta Clerici e promossa dalla Fondazione Clerici di Brescia, nelle sale bianche e asciutte dello Spazio Contemporanea va in scena, sino al prossimo 29 giugno, una interessantissima promenade tra identità e rappresentazione, alla ricerca del possibile punto d’incontro tra identità dell’artista e proprio corpo.
Lo si vede nella “Solitary Tiger” (1977) di Luigi Ontani, in cui l’artista e performer bolognese si consegna allo sguardo del visitatore unendo travestimento ed eros in una eccitante tigre umana che rimanda all’esotismo barocco tipicamente legato alla cifra stilistica dell’artista nella sua veste di soggetto fotografico.
Di forte impatto visivo è la serie dal poetico titolo “Un’isola è nell’aria” (1975) di Urs Lüthi. L’artista svizzero traveste e disvela la propria identità in una successione di scatti caratterizzati da eleganza e angoscia che richiamano le mille identità di noi stessi.
Vero pioniere della body art è stato sicuramente Rudolf Schwarzkogler, in questa mostra presente con “Aktion n. 2” del 1965. Alla base dell’opera del performer austriaco è la critica al soffocamento del moralismo borghese. La benda e le ferite autoinflitte al proprio corpo sono il simbolo della repressione sociale che Schwarzkogler con poderosa manifestazione visiva.
Liu Bolin è celebre per la sua capacità di mimetizzarsi nell’ambiente circostante grazie a un meticolosissimo lavoro di colorazione corporale. Nell’opera in esposizione, “Shooting, (Camouflage nr. 72)” del 2009, il mimetismo si presenta parziale, lasciando lo spazio a una fumettistica pistola puntata alla propria tempia. Si legge un possibile messaggio legato alla triste memoria delle esecuzioni cinesi.
Con una serie di scatti ‘in movimento’, l’arte performativa di Eikoh Hosoe in questo progetto del 1969 (“Kamaitachi”). Il proprio corpo in questo caso è utilizzato per interagire con gli abitanti del mondo rurale nipponico e impersonando un demone mitologico pericoloso per i contadini. Al confine tra realtà e scultura si colloca il progetto tematico “Refiguration – Selfhybridation” dell’artista francese ORLAN. Due fotografie in mostra, la nr. 3 e la nr. 17 (1997), ci rimandano una autoraffigurazione della performer e delle modifiche apportate dalle operazioni chirurgiche al volto: il messaggio di sottotesto denuncia l’esistenza storica in tutte le epoche e civiltà, di canoni estetici imposti verticisticamente.
E’ del 1995 il progetto di autoritratti fotografici di Yasumasa Morimura, intitolato appunto “My Self Portrait n. 58”. Le cinque opere presenti in mostra forniscono una decostruzione del sé a vantaggio delle celebrità artistiche cui rimandano le opere del performer nipponico: il sottotesto richiama la dualità Oriente/Occidente sotto la luce anche della predominanza dello sguardo maschile. Di forte impatto è anche la serie tematica delle “Polaroid senza titolo”, in cui l’artista autorappresenta celebrità femminili confondendo, con forte senso di spaesamento sull’osservatore, i confini tra lineamenti occidentali e orientali.
Messaggio fortemente femminista è quello rappresentato dal progetto “Untitled” della statunitense Cindy Sherman che, siamo nel 1990, si autorappresenta (sé e il femminile) in ambiti inconsueti rovesciando i cliché sociali. “Mrs. Claus” è il titolo dell’opera in mostra e la fotografa è ritratta in vesti grottesche che denunciano gli stereotipi radicati nello sguardo mainstream.
Questo tema ricorre con maggiore violenza creativa nel ben recente, 2013, “Trittico” di Chiara Fumai, in cui l’artista performativa si lega al proprio (purtroppo breve) tempo per denunciare anche in questo caso la soverchia dello sguardo – generalmente maschio, il male gaze – universalmente vigente eppur degno di necessaria lotta culturale.
Ketty La Rocca è presente in mostra con un progetto del 1976. “Le mie parole, e tu.” è una serie tematica che usa le mani per lanciare messaggi capaci di andare al di là delle parole. All’apparenza l’artista spezzina sembra parlare di se stessa e invece parla a nome di tutto l’universo femminile.
Sempre del 1976 è la serie di Gina Pane “Azione: il caso n. 2 sul ring”. Nell’opera della performer franco-italiana torna centrale la relazione tra proprio corpo e pubblico: l’effetto è molto visionario e radicale, l’artista si colloca nel cuore dello sguardo repressivo di una società dai toni militareschi. Dal Guatemala del 2003 proviene il progetto di Regina José Galindo dal titolo “¿ Quien puede borrar ellas?”. “Chi può cancellarle?” chiede la performer mentre fisicamente si muove dalla sede della Corte costituzionale in direzione del Parlamento guatemalteco, tenendo in mano una bacinella bianca piena di vero sangue, in memoria delle vittime della guerra civile (soprattutto donne) e contro la candidatura presidenziale di un candidato repressore e genocida.
Infine Vanessa Beecroft che, in anni diversi, firma la sua serie intitolata con le iniziali maiuscole. “VB 25” del 1996, “VB 43” del 2000 e “VB 48 del 2001” sono le tre opere dell’artista genovese di tableau vivant presenti in mostra. Come sempre, Beecroft propone fotografie che si ispirano alla religione, al cinema e alle lettere e che sono costruite in scena per solleticare l’istinto voyeuristico, la predominanza dell’alta moda. La figura dal vivo è centrale: le modelle ritratte sono imperturbabili come figure che dalle tele pittoriche si posano davanti al nostro sguardo.