Quest’anno si festeggiano i sessant’anni delle sue cancellature, ormai disseminate in luoghi e musei di tutto il mondo. Ma qual è il segreto di questa longevità artistica? L’inesauribile creatività di Emilio Isgrò risiede nella capacità di “cancellare” sé stesso, il proprio Ego. È questo il suo modo per rimanere sempre umile, vitale e aperto al nuovo.
Nel 1964 arrivano le sue prime cancellature, ma egli si distacca sin da subito dal nichilismo delle neoavanguardie proponendo un linguaggio e una ricerca costruttivi. Questa sua capacità di visione gli consente di scavalcare felicemente la crisi dell’arte contemporanea. Oggi, nell’epoca della comunicazione visiva di massa, Isgrò continua a riportare l’attenzione sull’importanza della parola, sempre più spesso desacralizzata, volgarizzata e banalizzata. Artista libero e non ideologico, nonostante della Cancellatura abbia fatto un’arte, si è da sempre dichiarato lontanissimo dalla Cancel Culture affermando, ancora una volta, che la sua è una distruzione creativa.
Per i sessant’anni dalla prima Cancellatura, Emilio Isgrò si racconta in una straordinaria intervista dal tono saggistico che ha però il sapore di una lunga conversazione.
Quest’anno si festeggiano i sessant’anni delle sue cancellature, disseminate in luoghi e musei di tutto il mondo. A cosa deve la Cancellatura questa longevità e questa fortuna?
La longevità della Cancellatura si spiega con il fatto che essa non è uno stile, come possono essere il Cubismo, il Dadaismo, la Pop Art o l’Arte Concettuale, ma qualcosa di simile all’alfabeto, l’altra faccia della Luna, il rovescio della scrittura. Come si fa a scrivere (e a pensare) se non si conosce la Cancellatura?
Cancellare se stessi e il proprio Ego è un modo per rimanere sempre umili, vivi e aperti al nuovo. È questo il segreto della sua longevità e della sua inesauribile creatività?
Anche per l’artista esistono la tattica e la strategia. A volte devi cancellare provvisoriamente il tuo Ego per esaminare con più lucidità i problemi che il tuo stesso lavoro ti pone. In pratica devi assegnarti stoicamente dei limiti prima che i limiti te li impongano gli altri. Anche Michelangelo fu costretto a confrontarsi con due papi terribili ma di grande spessore come Clemente VII e Giulio II. I risultati furono le Cappelle Medicee a Firenze e la Cappella Sistina a Roma. Sono convinto che il buon artista trionfa anche sui committenti peggiori, mentre il cattivo artista soccombe inevitabilmente anche davanti ai committenti migliori. I mercanti, che sono i veri committenti della nostra epoca, vanno dunque valutati caso per caso. Né accettati in blocco. Né in blocco respinti.
La Cancellatura è il tratto distintivo della sua arte, un elemento estetico e semantico insieme, uno strumento che nega per riaffermare. Tuttavia lei ha esordito con le parole, come poeta. Quando ha cominciato a cancellarle?
Un poeta cancella sempre, anche quando non lo sa. Pensi agli spazi bianchi delle poesie di Ungaretti, vere e proprie cancellature. E quanto alla pittura è tutto un cancellare. Citare il nero dei quadri del Caravaggio è la prima cosa che viene in mente. Ma forse è più interessante osservare ai raggi X certi quadri di Leonardo o di Raffaello: a quadro finito, buona parte del disegno sottostante è sparito. Questo conferma che si scrive e si dipinge cancellando.
Lei si esprime da sempre con la pittura e con la poesia: qual è il legame tra queste due arti?
Il più evidente l’ho appena detto: la necessità di cancellare. Ma ce ne sono tante altre. Picasso, che era un uomo colto, diceva che anche la pittura ha le sue rime. Come la poesia.
Nel 1964 arrivano le sue prime cancellature ma lei si distacca sin da subito dal nichilismo delle neoavanguardie proponendo un linguaggio e una ricerca che, al di là delle apparenze superficiali, sono sempre stati costruttivi. Questa sua lungimiranza è il segreto che le ha consentito di scavalcare la crisi dell’arte contemporanea?
Credo che la risposta se la sia data lei stessa. È però innegabile che per il senso comune le avanguardie del Novecento sono state programmaticamente nichiliste. Io ho semplicemente cercato di non cadere in quella che mi sembrava una trappola.
Il principe di Lampedusa era convinto che perché i giovani siciliani si potessero riscattare era necessario che andassero via dalla Sicilia prima dei vent’anni. Lei ha fatto appena in tempo, se n’è andato via a diciotto! È stata una sua scelta o è stato spronato a farlo?
È stata una scelta consapevole fin dagli anni di scuola. Per mia fortuna i miei genitori erano intelligenti e sensibili alla felicità dei figli, e non solo non mi hanno ostacolato, ma anzi mi hanno comperato il biglietto del treno. Poi ho dovuto cavarmela da solo.
Nella sua vita lei ha potuto conoscere una “generazione di giganti”: Peggy Guggenheim, Eco, Dorfles, Fontana, Manzoni, Baj, Munari, De Chirico, Guttuso, Pound, Montale, Quasimodo, Vittorini, Calvino, Sciascia, ecc. Ci racconta un aneddoto legato a uno di questi incontri?
Un incontro con Leonardo Sciascia al ristorante dove mi aveva invitato a pranzo: non riuscimmo a scambiare una parola per la timidezza di entrambi. Subito dopo, venuto nel mio studio dove voleva acquistare qualcosa, Sciascia diventò più ciarliero. Ma sostanzialmente ho dovuto parlare io, spiegandogli il significato dei miei libri cancellati che, mi confessò, la notte non lo facevano dormire.
Quando andò a vivere a Milano nel dopoguerra conobbe Vittorini, Quasimodo e Montale. Che ricordi ha di quel periodo?
La guerra era finita da pochi anni e si costruiva e ricostruiva un po’ dappertutto. Anche nell’arte e nella letteratura. Sono stato fortunato, perché un periodo così creativo non l’ho visto mai più.
Lei ha pubblicato un libro di litografie sul poeta Alberto Lùcia: ci racconta com’è andata?
Lùcia era un buon poeta e un raffinato collezionista e, oltre ad apprezzare il mio lavoro, amava la mia compagnia. Diventammo amiconi senza accorgercene, per semplice empatia, come si dice oggi. Da qui a un libro d’artista dedicato a lui il passo fu quasi automatico.
Pittore, scrittore, drammaturgo, regista, poeta… come è diventato anche giornalista?
Già partendo dalla Sicilia avevo deciso di fare il giornalista per mantenermi all’università (dove studiai pochissimo) e finanziare le mie opere senza chiedere soldi ai mercanti, neppure a quelli come Arturo Schwarz e Peppino Palazzoli che me li davano più che volentieri.
La Cancellatura è insita nella dialettica siciliana (acquisita una cosa poi si tende a cancellarla). Da sua conterranea le chiedo se è d’accordo che a volte i siciliani dovrebbero dimenticarsi di esserlo e cancellare la loro sicilianità.
Ero a disagio con il mio amico Vincenzo Consolo che proclamava di essere sicilianista anche a chi non voleva saperlo. Per fortuna ha scritto libri bellissimi. Io sono semplicemente siciliano. Mi pare che basti.
Cosa c’è di siciliano in lei e cosa c’è di milanese?
Di siciliano credo di avere la pazienza, e forse la fiducia nella Provvidenza, che alla fin fine mi ha ripagato, benché io abbia un certo pudore a nominarla. Di milanese ho il tic della puntualità: per cui arrivo alla stazione almeno un’ora prima che il treno parta. Una volta, infatti, è partito incredibilmente con un minuto d’anticipo. E l’ho perso.
Si sente cittadino del mondo?
Rispondere di no non si può: non è elegante. Rispondere di sì è possibile, ma purché sia per amore del prossimo, e un po’ anche di se stessi, visto che il mondo scricchiola da troppo tempo.
L’Orestea di Gibellina è la sua opera teatrale simbolo. Ci racconta l’esperienza della riscrittura dell’Orestea di Eschilo e come è nato l’impasto linguistico di italiano, siciliano e altri idiomi?
L’Orestea di Gibellina è nata per volontà mia e di Ludovico Corrao. Volevamo un teatro nuovo, legittimato, oltre che dal pubblico più colto, anche dal pubblico di pastori e contadini che doveva principalmente fruirlo. Questo per creare un senso di appartenenza che la retorica avanguardistica di quel tempo non consentiva ma anzi vietava. L’impasto dei dialetti, su una base sostanzialmente siciliana, è stato dettato dalla necessità di offrire non solo alla Sicilia, ma al Sud in generale, uno specchio in cui riflettersi in un momento di forte degrado sociale e civile. Tanto è vero che i giudici antimafia di Trapani e di Palermo abbandonavano i loro uffici per assistere a quegli spettacoli come a un rito di rinascita.
Negli ultimi decenni le sue cancellature si sono trasformate in pittogrammi d’insetti. Le formiche per gli antichi Greci erano considerate sacre, oggi invece le farfalle sono tra le sentinelle del cambiamento climatico e della crisi della biodiversità in atto. Lei che valore gli dà?
Trasformo le cancellature in pittogrammi di formiche o di farfalle perché la Cancellatura, che in fondo è un’ecologia del linguaggio, si associa automaticamente ai problemi ambientali della nostra epoca. L’artista deve rappresentare con efficacia, al massimo dichiarare le proprie intenzioni. Ma non è assolutamente in grado di dire quello che fa, se no gli sarebbe impossibile farlo: come il millepiedi di una famosa storiella Zen, che a forza di contarsi i piedi si blocca.
Ha recentemente dedicato un sonetto alla Madonna a cavallo di Scicli. In quei versi, con chiari riferimenti al cambiamento climatico e alla desertificazione in atto in Sicilia, parla di un “Dio barocco” e di un “pianeta ingolfato”. Come è nato questo sonetto?
Ero ospite dei miei amici Angelica Fontana, giornalista, e di suo marito Gary Davey, fondatore di Sky e promotore di Sky Arte in Europa, quando l’infaticabile sindaco di Scicli, Mario Marino, mi ha invitato allo spettacolo che tutti gli anni si tiene in piazza per celebrare la Madonna a cavallo che aiutò gli sciclitani a battere i saraceni. Uno spettacolo popolare nel senso migliore, con gli attori, immagino filodrammaci, chiamati a recitare con la tecnica dei pupari e la fissità dei pupi. A quel linguaggio da teatro epico, avevo io stesso fatto ricorso negli anni Ottanta per scrivere la mia Orestea siciliana. La rappresentazione di Scicli, pur distante dai miei obiettivi, confermava la bontà della mia decisione.
Umberto Eco affermava che mentre la TV faceva male ai ricchi (di cultura) e bene ai poveri (di cultura), con Internet è l’esatto opposto, fa bene alle persone colte, che sanno selezionare e scegliere, e male ai ragazzini e agli ignoranti. Lei condivide questo pensiero?
Completamente. Anche se oggi è l’accumulo delle notizie il fenomeno più inquietante, in quanto ciascuna cancella l’altra.
Nonostante della Cancellatura lei abbia fatto un’arte, recentemente si è dichiarato lontanissimo dalla Cancel Culture affermando che la sua è una distruzione creativa. Può spiegarci meglio cosa intende?
Non amo la Cancel Culture perché non ne accetto le intenzioni censorie. Quando c’è censura, infatti, dialogare non è facile. Certo, le intenzioni della Cancel sono buone, addirittura edificanti, come erano edificanti le intenzioni della Santa Inquisizione che mandava sul rogo le streghe e gli ebrei. Non per niente André Gide diceva che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. La mia Cancellatura, in altri termini, nasce per creare nuovi mondi, inattese ipotesi di lavoro, non per distruggere.
Nell’epoca della comunicazione di massa lei riporta l’attenzione sull’importanza della parola: desacralizzata, volgarizzata e banalizzata più che mai. Qual è il destino della parola nell’era dell’intelligenza artificiale?
L’immaginazione tecnologica non potrà mai distruggere l’immaginazione umana che contiene l’amore. Ci vogliono l’una e l’altra.
Secondo lei “cancellare una parola è un modo per renderla più potente”. Quale parola o testo cancellerebbe per lasciarla in eredità alle future generazioni?
La parola Bellezza, per preservarla dall’uso spropositato che se ne fa.
Lei ha cancellato tanti testi culturalmente significativi: i Promessi Sposi, la Bibbia, l’Odissea, l’Enciclopedia Treccani, la Costituzione italiana, il debito pubblico. Quale testo avrebbe ancora voglia di cancellare?
Sto pensando al Don Chisciotte: lo cancellerò nell’originale spagnolo per rendere omaggio, da europeo, a una grande cultura europea.
Pensa che l’arte possa diventare il luogo in cui recuperare il rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e Dio?
Posso dire, da credente tiepido, che là dove c’è arte, là c’è sicuramente Dio, se non altro per dare una mano al povero artista.