Nella moda e nel marketing c’è un’inclusività che esclude una categoria: i poveri

Nella fotografia contemporanea, e in particolare modo questa analisi si riferisce a quella legata al mondo della moda, l’inclusività è diventata una parola d’ordine, un mantra da ripetere ossessivamente. Brand e magazine di ogni dimensione si fanno promotori di campagne che celebrano diversità di genere, etnia, età e orientamento sessuale. Tuttavia, c’è una categoria che rimane sistematicamente esclusa da questa narrazione: i poveri.

Questa assenza solleva interrogativi profondi sull’autenticità dell’impegno verso l’uguaglianza e sulla reale portata di queste iniziative. La crescente attenzione verso l’inclusività è spesso interpretata più come una strategia commerciale che come un sincero impegno sociale. Molti brand utilizzano l’immagine di diversità per posizionarsi come modelli moderni e progressisti, riescono ad attirare un pubblico ampio e variegato, inclusi consumatori sensibili ai temi della rappresentazione sociale.

Mostrare modelli di diverse etnie, taglie, età e identità di genere è diventato un modo per ampliare il mercato di riferimento e migliorare l’immagine pubblica. Questa inclusione è quindi, spesso, subordinata a logiche di profitto. La diversità viene ridotta a un trend, un accessorio superficiale utile a generare copertura mediatica e reazioni positive sui social media. Quando l’inclusività diventa una facciata, il rischio è di trasformare un tema fondamentale in un’operazione di marketing priva di sostanza e credibilità. In questo contesto, le classi più povere e disagiate rimangono fuori dal quadro, invisibili.

Eppure sono in tanti e diventano ogni giorno più numerosi. Privi del potere d’acquisto necessario per accedere ai prodotti e ai servizi dei brand, non rappresentano un target commerciale appetibile. Non popolano le cover dei magazine, non compaiono nei feed di Instagram e non sono oggetto di mostre, talk e campagne pubblicitarie. Non sono interessanti, perché non possono restituire nulla. Questa esclusione non è solo una questione di mercato: riflette una narrativa più ampia in cui la povertà è sistematicamente ignorata o stigmatizzata, che ha come diretta conseguenza un ulteriore isolamento delle fasce sociali più deboli.

Una sfilata della stilista Iulia Barton

Abbandonati dalla narrazione sociale, i poveri finiscono per gravitare verso strategie politiche conservatrici che promettono riscatto e attenzione, spesso molto lontane dai valori progressisti che invece, soprattutto in un contesto come quello degli Stati Uniti, sono più interessati a sostenere il movimento woke. Molti partiti progressisti, come i brand, hanno scelto di dare priorità ai diritti civili delle minoranze rispetto a quelli sociali, che invece riguardano più da vicino le classi meno abbienti.

Questa scelta è discutibile e controproducente, dal momento che i due ambiti non sono mutualmente esclusivi. I diritti civili offrono comunque un piccolo, ma sostanziale, vantaggio: permettono di evitare una critica radicale e seria al sistema economico e al modello di società esistente.

Peter WhiteGetty Images

In altre parole, si può essere woke senza per forza essere anche anticapitalisti. Di conseguenza, anche le forze progressiste evitano di affrontare seriamente le storture del tardo capitalismo, rinunciando a proporre soluzioni concrete per correggerle. Questo lascia spazio al populismo, che finisce per attrarre i poveri, privati di una rappresentanza politica che parli realmente ai loro bisogni. Allo stesso modo, questo fenomeno sta alimentando divisioni sociali sempre più profonde. L’uso strumentale della diversità ha portato a una tendenza diffusa di tokenismo, in cui la rappresentazione delle minoranze diventa un gesto opportunistico, privo di un vero impegno.

È importante riconoscere che, nonostante tutto, ci sono stati progressi significativi negli ultimi decenni. La moda, ad esempio, sta effettivamente vivendo un cambiamento verso una maggiore inclusività, specialmente per quanto riguarda la rappresentazione visiva del corpo, della femminilità, della diversità, della disabilità e molto altro. Detto questo, è altresì fondamentale sottolineare che molti di questi cambiamenti sono dettati dalla presenza di opportunità di posizionamento, piuttosto che da un reale desiderio di uguaglianza. Quando l’inclusività è una risposta tattica e non una trasformazione sistemica e genuina, il rischio è di rafforzare disuguaglianze anziché abbatterle.

Così, per come la si osserva adesso, la tanto celebrata inclusività nella fotografia e nel marketing contemporaneo risulta spesso limitata, superficiale, ipocrita. È necessario tornare a considerare la diversità non più come un trend del marketing, ma come un reale impegno etico e sociale. L’uguaglianza non è un prodotto da vendere, è un valore da perseguire.

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