È scomparso ieri a Los Angeles il grande regista americano David Lynch, poco prima del suo 79° compleanno. Regista, sceneggiatore, pittore, musicista e visionario, Lynch ha ridefinito i confini della narrazione cinematografica e televisiva. La causa della sua morte, attribuita a complicazioni di un enfisema polmonare, ha privato il mondo di una delle menti più creative e audaci del nostro tempo.
Lynch nacque il 20 gennaio 1946 a Missoula, Montana, una piccola città il cui paesaggio idilliaco nascondeva un sottotesto inquietante, riflesso poi in molte delle sue opere. Figlio di un ricercatore scientifico, trascorse un’infanzia nomade, spostandosi frequentemente negli Stati Uniti. Fin da giovane mostrò un talento naturale per l’arte visiva, che lo portò a frequentare prestigiose scuole d’arte come la Pennsylvania Academy of the Fine Arts a Philadelphia. Qui Lynch si dedicò alla pittura, sviluppando uno stile caratterizzato da immagini inquietanti e surreali, un’estetica che avrebbe definito la sua intera carriera.
L’arte visiva fu il punto di partenza per il suo ingresso nel cinema. Durante gli studi, Lynch iniziò a sperimentare con cortometraggi che univano immagini e suoni per creare esperienze sensoriali uniche, spesso collaborando con lo staff di un negozio di Videocamere proprio a Philly. Questa sperimentazione culminò nel suo primo lungometraggio, “Eraserhead” (1977), un’opera surreale e disturbante che esplora temi di paternità, alienazione e paura. Girato in bianco e nero e con un budget estremamente limitato, il film divenne rapidamente un cult, rivelando al mondo il talento unico di Lynch.
Nel 1980, Lynch raggiunse il grande pubblico con “The Elephant Man”, basato sulla storia vera di Joseph Merrick, un uomo affetto da gravi deformità fisiche, un film che segnò un importante punto di svolta per la sua carriera: ottenne otto nomination agli Oscar e dimostrò la sua capacità di unire una narrazione accessibile a una profonda sensibilità artistica.
Successivamente, Lynch accettò la sfida di dirigere l’adattamento del romanzo di fantascienza “Dune” (1984) di Frank Herbert. Tuttavia, il progetto, condizionato da interferenze degli studios e limiti di tempo, si rivelò un’esperienza difficile per il regista. Nonostante il fallimento commerciale e le critiche iniziali, il film ha acquisito nel tempo uno status di culto, apprezzato per la sua estetica visionaria e la complessità tematica.
Nel 1986 Lynch tornò al cinema indipendente con “Blue Velvet”, un thriller psicologico che esplora i lati oscuri della vita suburbana americana. Il film, considerato uno dei suoi capolavori, rappresenta una perfetta combinazione di mistero, erotismo e surrealismo. La scena iniziale – un orecchio umano trovato in un prato – è emblematica del suo stile: un’immagine disturbante che scava sotto la superficie del quotidiano per rivelare un mondo nascosto e inquietante.
Il 1990 segnò una svolta nella carriera di Lynch con la creazione di “Twin Peaks”, una serie televisiva rivoluzionaria co-creata con Mark Frost. Il mistero su chi avesse ucciso Laura Palmer affascinò milioni di spettatori in tutto il mondo, trasformando la serie in un fenomeno culturale. “Twin Peaks” combinava elementi di soap opera, thriller e surrealismo, stabilendo nuovi standard per la narrazione televisiva e influenzando generazioni di creatori.
Gli anni ’90 furono un periodo prolifico per Lynch, con film come “Wild at Heart” (1990), vincitore della Palma d’Oro a Cannes, e “Lost Highway” (1997), un viaggio oscuro e criptico attraverso identità frammentate e ossessioni. Nel 1999 diresse “The Straight Story”, un’opera sorprendentemente lineare e toccante basata sulla vera storia di un uomo che attraversa gli Stati Uniti su un trattore per riappacificarsi con il fratello.
Il suo ritorno al surrealismo raggiunse il culmine con “Mulholland Drive” (2001), spesso considerato il suo capolavoro. Il film esplora i sogni infranti di Hollywood attraverso una narrazione frammentata e onirica. L’interpretazione di Naomi Watts e l’intricata struttura del film furono lodate dalla critica, guadagnandosi il premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Nel 2006 Lynch sfidò ancora una volta le convenzioni cinematografiche con “Inland Empire”, un’opera girata interamente in digitale che esplora i confini tra realtà, sogno e cinema stesso. Il film rappresenta una delle sue opere più complesse e sperimentali, consolidando la sua reputazione come un artista che non si piega alle aspettative commerciali.
Oltre al cinema, Lynch si dedicò alla pittura, alla fotografia, alla musica e alla meditazione trascendentale, una pratica che influenzò profondamente il suo approccio creativo. Pubblicò album musicali sperimentali come “Crazy Clown Time” (2011) e “The Big Dream” (2013), dimostrando ancora una volta la sua inesauribile curiosità artistica.
Nel 2017 Lynch tornò al mondo di “Twin Peaks” con una terza stagione attesissima. Intitolata “Twin Peaks: The Return”, questa nuova serie si rivelò un’opera monumentale, un viaggio meditativo che sfidava le convenzioni narrative. L’opera fu accolta come un capolavoro, confermando che Lynch era ancora al culmine della sua creatività. Fino agli ultimi anni della sua vita, Lynch rimase impegnato in diversi progetti artistici. Si parlava di un nuovo film, provvisoriamente intitolato “Wisteria”, che purtroppo non ha potuto completare. Nonostante la sua morte, la sua eredità artistica rimane straordinariamente viva.
David Lynch e la carrera da pittore
Gli anni di studio alla Pennsylvania Academy of the Fine Arts di Philadelphia rappresentano per Lynch un periodo formativo che influenzò profondamente tutta la sua carriera. In quel contesto, iniziò a sperimentare con materiali e tecniche, realizzando opere che spesso combinavano elementi tridimensionali, sculture e pittura. La sua estetica rifletteva un mondo interiore oscuro, popolato da immagini disturbanti e texture dense che evocavano il caos e l’angoscia.
L’incontro tra arte visiva e cinema per Lynch avvenne quasi per caso, durante la creazione del cortometraggio animato “Six Men Getting Sick” (1967), un’opera che descrisse come “un dipinto che si muove”. Questo esperimento rappresenta il punto di partenza della sua carriera cinematografica, ma Lynch non abbandonò mai la pittura, considerandola il nucleo stesso della sua creatività. La sua arte visiva rimase profondamente legata ai temi del surrealismo e dell’inconscio, ispirandosi a figure come Francis Bacon, Edward Hopper e il movimento dell’Espressionismo astratto.
Negli anni ’80, Lynch iniziò a esporre le sue opere in gallerie d’arte di rilievo, ottenendo un crescente riconoscimento nel mondo dell’arte contemporanea. Uno degli incontri più significativi della sua carriera pittorica fu quello con Leo Castelli, leggendario gallerista che aveva rappresentato artisti come Jackson Pollock, Andy Warhol e Roy Lichtenstein. Castelli riconobbe il talento unico di Lynch e lo incoraggiò a proseguire nel suo percorso artistico, facilitando l’inserimento delle sue opere nel circuito delle grandi mostre internazionali.
La pittura di Lynch è caratterizzata da una commistione di materiali e tecniche, che spesso includono olio su tela, carbone, legno e oggetti trovati. Le sue opere tendono a rappresentare figure antropomorfe e paesaggi industriali degradati, evocando un senso di disfacimento e alienazione. L’artista stesso descrisse le sue creazioni come “finestre sull’oscurità interiore”, dove la materia sembra emergere da un subconscio disturbante. I suoi lavori sono spesso accompagnati da titoli enigmatici, che aggiungono un ulteriore strato di mistero.
Tra le più celebri, si ricordano la retrospettiva “The Air is on Fire”, tenutesi al Fondation Cartier dove le sue opere furono affiancate a materiali inediti, come schizzi preparatori per i suoi film e oggetti personali. Nel 2018, una mostra intitolata “Someone Is in My House” al Bonnefantenmuseum di Maastricht esplorò ulteriormente il suo lavoro pittorico, mettendo in evidenza l’importanza dell’arte visiva nella sua poetica complessiva.
Parallelamente alla pittura, Lynch si dedicò anche alla fotografia, realizzando serie come “Factory Photographs”, che documentano paesaggi industriali abbandonati, e “Nudes”, una raccolta di immagini sensuali e surreali. Anche in questo ambito, il suo approccio era distintivo: la fotografia di Lynch si distingue per il suo uso drammatico della luce e delle ombre, che conferisce ai soggetti un’aura misteriosa.
Lynch considerava la pittura una forma di espressione fondamentale, che gli consentiva di esplorare emozioni e idee in modo più immediato rispetto al cinema. Mentre nei film il processo creativo coinvolgeva un’intera squadra e richiedeva tempi lunghi, la pittura era per lui un’attività solitaria, un dialogo diretto con la tela. Spesso lavorava nel suo studio per ore, lasciandosi guidare dall’istinto e dai materiali stessi.
Negli ultimi anni della sua vita, Lynch continuò a esporre le sue opere in gallerie di tutto il mondo, consolidando la sua posizione non solo come regista, ma anche come artista visivo di primo piano. La sua capacità di muoversi con naturalezza tra cinema, pittura, musica e fotografia dimostra l’unicità di un artista che non smise mai di esplorare nuove forme di espressione. Come disse una volta: “Le idee sono come pesci. Bisogna immergersi nel profondo per trovarle, e ognuno ha il suo oceano.”
David Lynch non era solo un regista; era un alchimista dell’immaginazione, capace di trasformare il familiare in qualcosa di straordinario. La sua estetica unica, caratterizzata da atmosfere oniriche, suoni disturbanti e narrazioni criptiche, ha influenzato profondamente il cinema, la televisione e l’arte contemporanea. La sua capacità di evocare emozioni complesse e di sfidare le convenzioni ha ispirato generazioni di artisti.
“C’è un grande buco nel mondo ora che lui non è più con noi”, ha scritto la famiglia Lynch su Facebook. “Ma, come diceva lui, ‘Tieni d’occhio la ciambella e non il buco’. È una splendida giornata con sole dorato e cielo azzurro per tutto il tragitta”