“Sebbene le pratiche di marketing siano state ampiamente applicate nel campo dell’arte, permane la preoccupazione che rimanga una “barriera” tra le arti e il mondo degli affari, dove l’arte è considerata come un’entità autonoma, senza alcun coinvolgimento da parte del mondo commerciale”. Queste sono le parole pronunciate da Victoria L. Rodner e Finola Kerrigan nel loro paper The art of branding − lessons from visual artists, nel 2014.
“La separazione intellettuale, disciplinare e semiotica tra arte e business ha oscurato il potenziale di studiare il mercato dell’arte come un esempio di branding basato sull’immagine”. Queste parole sono invece di Jonathan Schroeder tratte dal suo lavoro del 2005 in The artist and the brand.
In questi contributi, e in altri che citeremo, cerchiamo di individuare le correlazioni tra il filone del marketing che studia il branding e il mondo dell’arte, in particolare dell’arte visiva.
Possiamo individuare tre principali filoni di correlazioni:
- come gli artisti possono ispirare le aziende commerciali nel modo di fare branding;
- come aziende globali hanno usato l’arte e gli artisti per innalzare i loro brand;
- come gli artisti usano le tecniche di branding per valorizzare il loro posizionamento e ottenere più fama o denaro, facendoli apparire a tutti gli effetti come dei brand manager di loro stessi.
Sono diversi gli studi che suggeriscono come trarre spunti dagli artisti per innovare il modo di fare brand nelle aziende.
Jörn-Axel Meyer e Ralf Even in Marketing and the Fine Arts – Inventory of a Controversial Relationship definiscono l’artista come un innovatore e imprenditore, finanziariamente dipendente, che non trova prodotti per il cliente, ma cerca clienti per i suoi prodotti. In un marketing orientato a sé stesso, l’artista è il produttore e il primo cliente della propria opera.
L’artista crea prima per se stesso, con lo scopo di esprimere un contenuto personale verso l’esterno; successivamente, cerca di essere riconosciuto dal sistema dell’arte e dagli operatori a lui più vicini. Infine, ad un terzo livello, abbraccia l’interesse di ottenere visibilità su larga scala, con l’obiettivo di monetizzare il suo lavoro e il successo riconosciuto.
Questo processo è esattamente invertito rispetto a quanto suggerito dai libri di brand e di marketing dei decenni passati, ove prima si studia il mercato, quindi si definiscono dei “buyer personas“, poi si costruisce uno storytelling adeguato per avere l’appoggio dei media e della catena distributiva, e infine si crea un prodotto adeguato a quei buyer personas e a quegli story telling.
Da questo punto di vista il sistema dell’arte appare meno controllabile, ma del resto l’artista, nella sua spinta personale, non avrebbe il bisogno immediato di un riconoscimento economico. Su questo riteniamo fondamentale un monumentale lavoro sviluppato nel 2000 dagli economisti Tyler Cowen e Alexander Tabarrok An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art, or High and Low Culture dove correlano, anche matematicamente, le due grosse variabili che spingono l’artista verso un perenne conflitto tra soddisfazione e libertà di espressione da una parte e successo economico dall’altra. Gli artisti cercano la fama come principale componente non pecuniaria dell’arte e desiderano essere ricordati nella storia come creatori di rilievo.
Possiamo trarre importanti riflessioni. La prima differenzia il mondo dell’arte visiva da altre arti, quali il teatro o il cinema ad esempio. I due ricercatori correlano tali arti con il capitale necessario per giungere ad un prodotto finito. Di norma un’opera d’arte visiva richiede pochissime risorse finanziarie, quasi nulle. Maggiori risorse sono necessarie per una rappresentazione teatrale, mentre per un film sono necessarie ingenti risorse. Questo è ad esempio uno dei motivi per cui l’arte visiva ha più possibilità di generare avanguardie ed esprimere un processo che davvero parte dal prodotto e non dal mercato. Tale inversione nella catena del valore, che inverte la qualità del prodotto intesa come coerenza creativa e necessità di avere un ritorno economico, ha creato un unicum che è il sistema dell’arte.
“In nessun altro settore, come nell’arte visiva, i ‘peers‘, ovvero gli operatori vicini al produttore, sono così determinanti per il reale successo dell’artista. La ricerca fondamentale che segnaliamo è The art machine: dynamics of a value generating mechanism for contemporary art di Victoria L. Rodner e Elaine Thomson che mostra come a partire dalle scuole d’arte, passando per gallerie, critici, fiere, collezionisti, musei e fiere d’arte si ottiene un sistema piuttosto chiuso che all’unisono funge come un meccanismo di branding interdipendente. Questa “art machine” agisce quindi come una struttura di legittimazione brandizzata e di branding, in cui individui e istituzioni influenti lavorano attivamente per costruire un marchio a favore degli artisti.
Il ridicolo costo manifatturiero dell’arte visiva permette agli artisti di esprimere la loro creatività senza troppi vincoli. Per la natura spesso non immediatamente intellegibile del loro prodotto e per il fatto che esso nasce senza davvero essere pensato per uno consumatore ideale, il prodotto è dato in pasto a un sistema chiuso, il sistema dell’arte, che agisce come una macchina di branding e, in alcuni casi, contribuisce a creare realmente un brand.
La seconda riflessione è invece rivolta alle aziende di beni di consumo, che possono trarre importanti insegnamenti osservando gli artisti e il mondo dell’arte nel modo di fare branding. Il primo elemento è legato alla indipendenza ideologica. L’artista di qualità, quello che passerà vincitore attraverso i meccanismi dell’art machine, opera (idealmente) in modo scollegato dalla necessità di dover compiacere il mercato. È così che aziende di altri settori possono optare per seguire modelli artistici, promuovendo l’integrità artistica dei loro prodotti, l’autodefinizione e l’indipendenza ideologica (Elizabeth Hirschman, Aesthetics, ideologies and the limits of the marketing concept, in “Journal of Marketing”, vol 47, 1983).
A tutti gli effetti alcuni esempi sono dati da Apple, Samsung o Google, quantomeno nelle loro fasi di start-up. Il modello delle start-up è particolarmente simile a quello degli artisti, la maggior parte delle start-up ha una idea ancora non validata dal mercato e sviluppa prodotti partendo da un’intuizione, in una fase iniziale cercando di non farsi condizionare da ciò che il mercato richiede. Il successo deve arrivare con una discontinuità, perché la start-up, di norma, non vuole aggredire una fetta di un mercato esistente, ma piuttosto vuole creare un nuovo mercato. Il modo in cui Dietrich Markwart Eberhart Mateschitz ha reso la Red Bull una azienda globale, lavorando per anni al perfezionamento di un prodotto di cui non esisteva alcun mercato di riferimento, è annoverabile come un processo simile alla creazione di un’opera d’arte.
Anche nel caso di artisti “branded” come Damien Hirst o Jeff Koons, hanno avuto un ruolo fondamentale galleristi e case d’asta, attraverso battute milionarie. Tuttavia è molto probabile che siano le case d’asta ad aver attuato strategie di branding classico (pianificazione a tavolino dei ritorni economici e di brand awareness) approfittando della loro autorevolezza nel sistema dell’arte (si veda il già citato paper di Victoria L. Rodner e Elaine Thomson). Un chiaro esempio lo si rileva dalla battuta milionaria dell’NFT di Beeple o della Girl with Baloon di Banksy, operazioni certamente identificabili più come “brand performance”, nostro termine, che come disinteressata mediazione.
Tali “brand performance” non sono inusuali nel settore dell’arte e hanno lo scopo di portare brand equity ad un artista attraverso tecniche che intrecciano finanza e performance, giocando sul sensazionalismo delle grandi cifre, la ifficoltà del grande pubblico, e dei media, a comprendere le dinamiche e la autorevolezza che tali operatori hanno acquisito. Certamente osservare la distruzione in diretta di un’opera d’arte, mentre viene battuta ad una cifra quasi milionaria, ha un suo fascino mediatico, resta da comprendere se, viste le cifre e gli aspetti normativi e legali di una asta pubblica, ha una sua correttezza formale.
I new media entrano come doping nel sistema tradizionale di branding degli artisti, ma ne parleremo in una successiva parte di questo articolo.
La seconda parte di queste riflessioni su Arte e Brand le abbiamo pubblicate qua:
Arte e branding (pt. 2): l’arte al servizio dell’estensione di linea nei brand