Esistono figure curatoriali che agiscono sui ponti di connessione linguistica, in costante equilibrio tra la spinta teorica del progetto e i luoghi atomizzati in cui il significato fonde l’estetica con il suo genius loci veggente. Cristiano Leone, filologo e drammaturgo e molto altro, esemplifica questa figura di sincronizzazione tra linguaggi e superfici abitabili, un approccio tra regia e scrittura in cui la teoria incontra l’azione performativa dentro luoghi di straordinaria radice storica.
Tra le idee messe in moto da Leone ricordiamo il Festival del 2016 “Ō Music, Dance and Art” che portò al Museo Nazionale Romano i tappeti sonori di Seth Troxler, Anna Calvi, Francesco Tristano e altri producer di fama globale. Oppure i progetti per Villa Medici, Galleria Borghese, Auditorium Parco della Musica e altri spazi ad elevata connotazione archeologica, ambienti radianti dove il corpo agonistico riapre il canone iconografico in un’aspirazione che riattiva il contenuto di statue, mosaici e affreschi parietali.
Nel frattempo Leone ha capito il valore tenace della raccolta editoriale, quel momento in cui far sedimentare gli eventi in una sintesi da volume riassuntivo, il cosiddetto ATLAS OF… che è un tipico obiettivo di fondazione, un’impresa di sedimentazione e sintesi per (ri)organizzare la geografia dei luoghi in modo interconnesso e funzionale. Nasce così il volume per Rizzoli International, un libro ricco e rizomatico che mette a terra una scrittura di pregio mentre lascia volare, come chimere metafisiche, le immagini di questa lunga storia chiamata Performance.
Il tema Performance, generato nella notte dei tempi, si è stabilizzato negli anni Sessanta del Novecento, quando l’azione del corpo divenne sistema di pensiero condiviso e ragionamento concettuale per il superamento del quadro. Erano giorni di rivoluzione sistemica dei linguaggi tradizionali, al punto da rendere lo stesso corpo un soggetto linguistico o un oggetto strumentale nello spazio abitato. Ci basti l’esempio cristallino di Yves Klein quando usava le modelle verniciate di blu come antropometrie impresse su tela.
O il modo sacrale in cui Gina Pane feriva le sue braccia con spine di rosa che rendevano il sangue un codice di trascendenza semantica e letteraria.
Emersero negli anni Settanta le figure centrali di Marina Abramovic, Vito Acconci, Chris Burden, Yoko Ono, Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler, Fabio Mauri, Gilbert & George… percorsi diversi entro l’uso radicale del corpo come campo da dilatare e comprimere secondo codici politici e catartici, lungo linee dinamiche che ponderavano le rivoluzioni culturali e le filosofie di maggior impatto antagonista.
Nei decenni successivi la performance si è ibridata in molte maniere, finché negli anni Novanta ha preso la forma di un dialogo tra carne e tèchne: parliamo dell’attivisimo post-chirurgico di Orlan, dell’agonismo muscolare di Marcel-lì Antùnez Roca, del primitivismo moderno di Stelarc, del cinema ibridato di Matthew Barney, del postumano sanguinante di Franko B…
E poi sono arrivati gli ultimi quindici anni, quelli del pensiero digitale, dei social media come nuova palestra per una performance che si fonde con altri linguaggi e contesti d’appartenenza, al punto da gonfiare la forma e il contenuto dell’arte urbana, delle teatralità non canoniche, della club culture elettronica, dei palchi di nuova specie scenografica, dei raduni più o meno spontanei, dei meme e reel che accolgono nuove prassi atletiche. Su questa parte s’innesta in modo perfetto l’analisi globale di Leone, il suo sguardo planetario che cuce luoghi ed eventi sulla mappa dei continenti. Viene ordinata una planimetria di spazi nel mondo in cui si sperimentano nuove formule performative: musei, centri culturali, fondazioni ma anche teatri, opere, biennali, rassegne, festival, spazi sperimentali e temporanei…
Quando qualcuno scova la cifra unitaria che unisce distanze in apparenza esagerate, ecco che un linguaggio diventa condivisione omogenea, dialogo espanso, collaborazione produttiva. Cristiano Leone ha capito che la sintesi nel marasma informativo rimane la prima chiave d’ingaggio in un grande contenitore linguistico. Atlas of Performing Culture è il compendio fondamentale per comprendere le fasi e le evoluzioni di un linguaggio che resta connaturato alla nostra natura biologica, alla nostra educazione, alle scelte culturali, agli eventi della società in cui viviamo. Perché il corpo, non dimentichiamolo, è molto più ampio e dinamico del nostro moto apparente.