Collaborazioni tra artisti e aziende d’Intelligenza Artificiale: un futuro possibile?

All’alba dell’era industriale, Edmund Cartwright, padre del primo telaio meccanico della storia, cercò invano l’ausilio degli artigiani tessili di Manchester, fulcro dell’industria inglese del tempo, per raffinare la sua invenzione. A loro grande dispetto, Cartwright era motivato dall’intenzione di rendere obsolete le mani laboriose dei tessitori, in favore di una produttività irraggiungibile per l’uomo. Questo episodio, narrato nel saggio “Blood in the Machine” del giornalista Brian Merchant, è un esempio paradigmatico di come la tecnologia possa minacciare l’autonomia creativa e produttiva dell’uomo.

Non sorprende che, oggi, alla vigilia di un’altra rivoluzione lavorativa – quella dell’intelligenza artificiale – molti possano chiedersi se sia opportuno per artisti e creativi collaborare con le aziende che stanno sviluppando gli strumenti destinati a rendere marginali le loro stesse competenze. La realtà, tuttavia, presenta un quadro molto più sfumato.

Prendiamo ad esempio Refik Anadol, un autore multimediale che ha fatto dell’IA un cardine della sua produzione artistica. Per lui, la collaborazione con le aziende hi-tech non è una concessione a chi potrebbe vanificare il suo lavoro, ma piuttosto un modo per sperimentare nuovi linguaggi espressivi grazie all’applicazione di tecnologie innovative. Ha lavorato come artist-in-residence per Nvidia e OpenAI, e considera l’IA come il suo nuovo “telaio” a cui applica trame d’arte e creatività.

Nelle parole di Anadol, tratte da un’intervista concessa all’ARTnews, l’Intelligenza Artificiale è il nuovo telaio, il nuovo pennello. Analogamente, Nvidia non fornisce solo uno strumento, ma pigmenti e tele con cui creare. Nel suo percorso artistico, Anadol ha trovato un grande successo utilizzando algoritmi di apprendimento automatico per produrre installazioni immersive, performance audiovisive dal vivo e opere d’arte tokenizzate sulla blockchain.

Un altro caso degno di nota è quello di Alex Reben, il quale sostiene che artisti e ricercatori artistici hanno sempre lavorato con aziende e istituzioni per sviluppare e testare il potenziale di nuovi strumenti, dai copiatori Xerox alla pittura acrilica, fino ai plotter per computer.
Reben ritiene che lavorare con l’IA abbia una certa familiarità: proprio come si è fatto con i primi computer negli anni ’60, anche ora l’accesso all’IA ha significato lavorare con le istituzioni che la sviluppano.

In questo panorama, dunque, non si tratta di scendere a patti con il nemico, ma di intraprendere un cammino di scoperta delle potenzialità creative di strumenti sempre più sofisticati, mantenendo la propria autonomia artistica nel processo. Collaborazioni tra artisti e aziende d’Intelligenza Artificiale possono rappresentare un’occasione unica per esplorare nuove forme d’espressione artistica.

Se una volta furono i tessitori a temere il telaio meccanico di Cartwright, oggi gli artisti sembrano accogliere l’innovazione portata dall’IA, trasformandola da minaccia in opportunità. Perché il mestiere dell’artista, a dispetto di quanto pensasse Cartwright, non è replicabile da una macchina: così come il telaio non può sostituire la creatività del tessitore, anche l’Intelligenza Artificiale non potrà mai competere con l’unicità dell’estro artistico.

In definitiva, la risposta alla domanda se gli artisti dovrebbero lavorare con le aziende di IA pare essere un risonante “sì”, purché mantengano la loro unicità senza succumbere alle tentazioni dell’omologazione tecnologica. Ricordando sempre che l’IA, seppur incredibilmente avanzata, rimane solo uno strumento, e che l’arte è da sempre espressione dell’animo umano, in tutte le sue imperfezioni e contraddizioni, che nessuna tecnologia potrà mai riprodurre.

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